Strage di Bologna, adesso la Procura generale “dà i numeri” per dimostrare il legame di Cavallini coi Servizi
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo
Caro direttore,
Gilberto Cavallini – irriducibile componente dell’originaria banda armata nota come Nuclei armati rivoluzionari – potrebbe essere stato, in realtà, un elemento collegato ai servizi segreti – ovviamente “deviati”, anche se, in Italia, non si capisce più quali sarebbero stati quelli “ben direzionati” -, collegato quindi a Licio Gelli e al misterioso mondo delle “barbe finte” a cui sarebbero imputabili tante nefandezze della nostra storia repubblicana? La domanda, a questo punto, dev’essere posta così, direttamente, come pretendono le parti civili nel nuovo processo per la Strage di Bologna, magari pretendendo anche che qualcuno spieghi, tentando di rispondere positivamente al quesito, come si spiegherebbero, in questo quadro investigativo, i 36 anni di carcere, in gran parte “duro”, subito dall’imputato nuovamente alla sbarra.
La Procura generale di Bologna, però, dopo aver deciso di avocare le indagini che quella “ordinaria” aveva deciso di archiviare, fa approdare nel processo in corso una parte del materiale – per il resto coperto da “segreto istruttorio”, con grave pregiudizio per i diritti di difesa di Cavallini – su cui sta investigando e, in particolare, due numeri di telefono – 342111 e 342121 – che potrebbero provare la collusione dell’imputato coi sunnominati “servizi”. La tesi non è solo “propugnata” dall’ex-parlamentare del Pd, Paolo Bolognesi, ma anche da un funzionario della Sip in pensione e da due investigatori della GdF che avrebbero “lavorato” su quei numeri e che ora il presidente Michele Leoni ha deciso di convocare in aula.
A testimoniare che cosa? A testimoniare che – se quei numeri fossero esatti e se quei numeri fossero di Milano – sarebbero riferibili a un’utenza riservata della centrale Sip di via Mantegna che, secondo alcuni rapporti “top secret”, sarebbe stata frequentata anche da tale Alberto Titta, il quale, in un noto e poco credibile libro è indicato come collaboratore dei “servizi” nella fantomatica organizzazione “Anello”. Si proceda con ordine. Quei due numeri di telefono compaiono nelle agende che furono sequestrate a Cavallini più o meno al momento dell’arresto. Ora, dopo 35 anni, l’imputato non ricorda a chi fossero riferiti, ma fornisce un’indicazione chiara, coerente e largamente verificata: nelle sue agende, compaiono due tipi di annotazioni telefoniche: intestatari “in chiaro” con l’effettivo e corrispondente numero di telefono; intestatari “cifrati” con numeri ovviamente “mascherati”.
I numeri 342111 e 342121, benché non ricordi a chi fossero riferiti, come già detto, corrispondono nell’agenda di Cavallini a soggetti “mascherati” e, quindi, come in tutti gli altri casi analoghi, non potrebbero essere letti come appaiono: sono solo una sequenza di cifre da cui ricavare il numero vero. Al contrario, la Procura generale, dopo aver usato un algoritmo che ha permesso di associare quei numeri all’utenza riservata di via Mantegna a Milano, per sostenere che costituiscano prova del collegamento Cavallini-“servizi deviati”, è costretta a un salto logico di non piccolo momento: l’imputato in quei due casi – e solo in quei due casi – avrebbe annotato il numero esatto da comporre a fianco di un nome fittizio. Tutto è possibile, certo, ma qui pare si stia esagerando, nell’ansia d’inchiodare l’imputato alle ipotesi accusatorie. Tanto più che sarà curioso sapere dagli “Sherlock” e dai “Watson” della Procura generale perché mai siano così certi che quei numeri – indicati senza prefisso – siano proprio di Milano e non di una qualsiasi delle altre cento province e altrettanti distretti telefonici della “rete fissa” degli anni ’80?
Senza soffermarsi più di tanto proprio anche su questo particolare: se Cavallini non aveva bisogno di mascherare quei numeri come fece in tutti gli altri casi analoghi, perché non annotò anche il relativo prefisso? Si potrebbe continuare, magari facendo notare – come ha fatto notare l’avvocato Alessandro Pellegrini – che nessuna seria inchiesta giudiziaria e soprattutto nessun tribunale italiano ha mai accertato l’esistenza della fantomatica rete spionistica “Anello” – che, allo stato attuale delle cose, è solo una suggestione libresca- né tanto meno addossato, anzi, nemmeno ipotizzato la compromissione del misterioso Alberto Titta in un qualche reato commesso in Italia.
Si potrebbe continuare, per far comprendere al lettore quanto siano infondate e al di là d’ogni limite del ridicolo queste ipotesi, ma non servirebbe a nulla, dal momento che, invece, il presidente della Corte d’Assise, Michele Leoni, ha deciso di approfondire il tema; non ostante proprio lui, Leoni, di contro, insistendo più volte nella necessità di tenere il dibattimento entro il perimetro tracciato dai capi d’imputazione dell’atto di rinvio a giudizio di Cavallini, abbia respinto sistematicamente tutte le richieste della difesa volte ad approfondire la così detta “pista palestinese”. Pista che, al confronto di quella della “Anello” cara alle parti civili, di indizi consistenti ne conterrebbe un intero e ricchissimo “collier”.