«Contro l’Alzheimer meglio ricchi che poveri!» La denuncia del’esperto

1 Mar 2019 15:21 - di Redazione

Con l’Alzheimer non si scherza. Anche se, come diceva Woody Allen “è meglio essere ricchi che poveri, se non altro per ragioni economiche”. In realtà, denuncia Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione italiana di psicogeriatria, riprendendo idealmente le parole del regista americano, è meglio essere ricchi anche per motivi sanitari. Soprattutto quando si deve resistere o ci si trova a combattere una malattia come l’Alzheimer. “La povertà incide ferocemente sulla vita dei malati e delle loro famiglie. Comporta difficoltà pratiche nell’orientarsi nei servizi, per acquistare sistemi di protezione, farmaci”, per farsi assistere da “badanti” e così via. Sono parole dure quelle con cui lo specialista ha posto il tema delle differenze economiche che incidono sull’impatto delle demenze, aprendo oggi a Montecatini Terme il decimo Congresso sui centri diurni Alzheimer, curato dall’Unità di medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia. Non è solo una questione di cure, ma anche di prevenzione in senso lato. Trabucchi cita diversi studi. Uno recente dall’Inghilterra, pubblicato su ‘Jama Psychiatry’, rileva che essere poveri da anziani impenna il rischio di demenza e che nella terza età le risorse economiche incidono sulla salute cerebrale più del livello di istruzione. Analizzando 6 mila casi di adulti nati tra il 1902 e il 1943, è emerso che il 20% della popolazione meno abbiente aveva oltre il 50% di chance in più di rischiare la demenza rispetto al 20% dei benestanti. “Essere poveri significa lotta quotidiana vissuta spesso in solitudine – incalza Trabucchi – E’ la povertà di chi magari non può neanche godere di rapporti affettivi efficaci, sia sul piano dell’assistenza fisica sia su quello del supporto morale. Una vita che non è più vita e che può condurre a quei tragici casi di omicidio del coniuge malato o di omicidio suicidio”.

l’Alzheimer non si cura bene se si è poveri

Colpa anche dello Stato? “Diciamolo pure, è la verità – conclude il professore – La povertà dei malati si specchia nella povertà dei servizi dedicati alle demenze. Un handicap tuttora molto diffuso, in particolare in alcune aree del Paese. E non bastasse, ce la dobbiamo vedere anche con una notevole povertà di investimenti nella ricerca per definire come meglio fornire i servizi”. La povertà, viene evidenziato, equivale a bassa scolarità, riduce le possibilità di sapere e d’informarsi, non consente vita sociale. La mancanza di stimoli finisce per irrigidire il cervello riducendone la capacità di resilienza. Difficile permettersi il sano stile di vita raccomandato come prevenzione dai geriatri, oltre che dall’Organizzazione mondiale della sanità. Quindi, elencano gli esperti, niente letture, cinema, distrazioni, attività fisica e culturale, rapporti sociali, viaggi. Soldi, ricorda Trabucchi, significa anche maggiore accesso all’istruzione. Non sarebbe dunque un caso che, secondo le ultime statistiche, nei Paesi occidentali i casi di demenza sono diminuiti negli ultimi decenni del 20% soprattutto tra le persone con livelli di istruzione elevati. Questo, ragionano gli esperti, perché l’istruzione produce di solito migliori prospettive di lavoro e guadagni maggiori, una vita culturale e sociale più ricca e capacità mentali ben allenate. Una sorta di scudo contro la demenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

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