Processo 2 agosto: sì, forse ascoltare Pazienza è inutile, ma perché «fuorviante»?
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
tra gli avvocati di Gilberto Cavallini, uno dei tre, Mattia Finarelli, ha una caratteristica non frequente, rispetto ai “difensori storici” dei “neri”: ha una storia personale in alcun modo, nemmeno minimamente intrecciata con quella della Destra politica italiana; una carriera professionale dignitosa e variegata, ma senza precedenti esperienze in materia di terrorismo. Il suo punto di vista, insomma, almeno rispetto a quello di chi, da una vita ormai, segue queste vicende, è “vergine”, come altrimenti non può esserlo quello di chi è stato chiamato “d’ufficio” – come si dice burocraticamente – a prendersi cura di un imputato. Ed è libero da qualsivoglia pregiudizio di tipo politico, non “condividendo” nient’altro col suo cliente, oltre la contingente sorte processuale. Insomma, le perplessità e i commenti di Finarelli su quello che si potrebbe definire il “colore”, il “clima” del processo hanno un peso particolare, essendo del tutto identici a quelli che chiunque farebbe, se avesse attenzione per ciò che accade in certe, anzi, proprio in questo genere di aule di tribunale. Merita d’essere evidenziata, dunque, la sorpresa – non proprio positiva – suscitata in Finarelli, quando ha ascoltato il presidente della Corte d’Appello, Michele Leoni, spiegare che non si sarebbe ammesso Francesco Pazienza in aula, in quanto la sua testimonianza potrebbe risultare «inutile, se non controproducente o addirittura fuorviante». Ora, sia chiaro: è del tutto legittimo valutare «inutile» la deposizione di Pazienza al processo Cavallini, sulla base della documentazione che lo stesso ex-faccendiere ha spedito ai magistrati bolognesi. Certo, trattandosi di carte che, in qualche modo, si riferiscono al depistaggio – o meglio: all’”impistaggio” – del treno Taranto-Milano, così inutile, forse, non sarebbe stato, ascoltarlo. Però, si può anche nutrire fiducia in Leoni e nella Corte, sotto questo aspetto. Più complicato, invece, risulta accettare l’uso, sempre da parte della Corte, dei termini «controproducente» e, soprattutto, «fuorviante»: controproducente per chi? E fuorviante rispetto a cosa? Secondo quel Giulio Andreotti che, nell’immaginazione di Paolo Bolognesi almeno, è un ciclico “convitato di pietra” proprio di questi processi, <a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende>. Ora, senza scomodare l’ironia del “divo Giulio”, la sensazione che un po’ troppo spesso qualcuno si lasci sfuggire, nel dibattimento a carico di Cavallini, espressioni che appaiono tradire un “pregiudizio di colpevolezza” c’è. E non dovrebbero essere gli avvocati e men che meno i giornalisti a ricordare a tutti, ma proprio a tutti, che a garantire il buon funzionamento della giustizia concorrono sì l’indipendenza e l’autonomia del magistrato, ma anche e primariamente la sua imparzialità. Mercoledì si è deciso, al termine della seconda udienza con Valerio Fioravanti, di ascoltare Gilberto Cavallini per ultimo, alla fine degli esami di tutte le altre testimonianze. Per quel giorno si ha un solo auspicio: che venga chiamato al banco l’imputato, non già il “colpevole”.