Francesco Cecchin, 38 anni dopo. Gettato da un muretto perché stava “dalla parte sbagliata”

16 Giu 2017 15:14 - di Romana Fabiani
Francesco Cecchin

“E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile, con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…”, è un passaggio di  Generazione ’78, le strofe in musica che  Francesco Mancinelli ha dedicato ai caduti della folle stagione degli anni di piombo. Sono passati 38 lunghi anni da quando Francesco Cecchin è stato scaraventato giù da un muretto di cinque metri, dopo essere stato aggredito e pestato a sangue dagli estremisti della sezione del Partito comunista di via Montebuono nel quartiere “Africano”, zona di confine, blindata dai rossi e quindi impraticabile per i ragazzi di destra. Era l’epoca della sfida  per l’egemonia territoriale, della conquista dei territori come in un Risiko impazzito per il quale si rischiava la morte ogni giorno.

Francesco Cecchin, un volo di cinque metri

Era la sera del del 28 maggio 1979 quando Francesco, militante del Fronte della Gioventù, avrebbe compiuto 18 anni qualche mese dopo,  passeggiava in Piazza Vescovio, con la sorella e alcuni amici. Non aveva sonno quella notte di fine maggio e l’affissione prevista per le strade del quartiere non doveva essere tradita. «Era già mezzanotte – racconta la sorella – ero più grande di due anni, sapeva bene che senza di me non era possibile. I nostri genitori non volevano. Si avvicinò e mi disse “‘Maria Carla, eddai! Vieni con me. Andiamo a fare un giro”. Avrei dovuto pensare che fosse tardi, che era pericoloso, che non aveva senso.  Ma non lo feci e risposi va bene». In piazza viene riconosciuto da un gruppo di persone, c’è una Fiat 850 poco distante, ma nessuno ci fa caso. “È lui prendetelo”, dice una voce. Scendono dall’auto e cominciano a inseguirlo. Francesco  intima a Maria Carla di fuggire e cercare aiuto, viene rincorso, scappa, finché non viene agguantato all’altezza del civico 5 di via Montebuono mentre sta cercando di raggiungere il condominio dove abita un amico. Pestato a sangue in un cortiletto, viene scaraventato giù da un terrazzino di 5 metri. In una mano un pacchetto di sigarette e nell’altra le chiavi di casa. I suoi assassini sono attivisti della sezione comunista della zona, tutti lo sanno, ma nessuno ha mai pagato per quell’omicidio. Le indagini, come da copione, brillarono per approssimazione e dilettantismo malgrado la valanga di  indizi, prove e testimonianze. Si disse che Francesco era caduto accidentalmente. Stare dalla “parte sbagliata” allora significava essere cittadini di serie b, vittime predestinate dello slogan “uccidere un fascista non è reato”.

Il coma durato 19 giorni

Francesco entra in coma, muore il 16 giugno dopo 19 giorni di agonia, vegliato in ospedale dai suoi fratelli, come accadrà tra anni dopo con Paolo Di Nella. In tanti passano giorni e notti davanti a quel muro maledetto, altri non si allontanano mai dal “San Giovanni” nella speranza di un miracolo. L’illusione di un bollettino medico e poi la morte del “biondino” del quartiere Trieste, ribelle, testardo e scavezzacollo. È alto, biondo e con gli occhi azzurri, le ragazze non gli mancano. Ma ha un pallino: la politica, la militanza, la voglia di cambiare il mondo, la rivoluzione. Frequenta la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del “quartiere Africano”. La a sua colpa? Aver attaccato un manifesto nel posto sbagliato. Francesco era reduce da un’accesa discussione con un gruppo di attivisti della sezione del Pci che avevano completamente ricoperto i tabelloni elettorali per le elezioni europee alle porte. Nel corso della lite l’allora segretario della sezione de Pci, Sante Moretti, un passato da pugile, aveva  minacciato Cecchin. «Tu stai attento. Perché se poi mi incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtina, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia». Intervistato tanti anni dopo, Moretti ammise di aver minacciato i ragazzi del Fronte della Gioventù ma negò le minacce dirette a Cecchin. Francesco lo guarda, si volta e se ne va.

Il presente a piazza Vescovio

Come ogni anno fratelli, amici, tanti giovani che non lo hanno mai conosciuto, si sono ritrovati sotto il murales di piazza Vescovo, con la scritta “Lui vive, lui combatte”,  per non dimenticare, per rinnovare un giuramento, per raccogliere il testimone nel fluire delle generazioni. Un saluto notturno nei giardini dedicati a Francesco (“vittima dell’odio politico”), inaugurati nel 2011 grazie all’amministrazione capitolina di centrodestra, accanto alla stele che lo ricorda. Poi l’affissione nel quartiere dove gli assassini scapparono. Nel pomeriggio, come sempre, si svolgerà la cerimonia del “presente”. Emozioni e passioni di un rito laico che si tramanda nei decenni, in mezzo al traffico di una città impazzita. È una segno tangibile per restituire Francesco alla memoria condivisa di un popolo e strapparlo al ricordo di una “parte”.

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