Obama a Hiroshima: una visita debole nei contenuti e a tratti imbarazzante

30 Mag 2016 12:34 - di Mario Bozzi Sentieri

Visita in chiaroscuro quella del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama a Hiroshima, la città distrutta dalla bomba atomica, sganciata da un bombardiere statunitense, il 6 agosto del 1945. Obama è stato  il primo capo della Casa Bianca in carica a visitare il luogo dove esplose la bomba, che uccise , spesso polverizzandoli,  circa 140.000 civili. È stato un atto di buona volontà – bisogna riconoscerlo – anche se ancora debole nei contenuti.

Al popolo giapponese che, secondo un  sondaggio di “Sputnik.Opinioni”(2015), ritiene al  61% che gli Usa debbano chiedere scusa per i bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki, il presidente americano ha opposto la (sua) ragione di Stato e la (sua) ragione storica, limitandosi a pronunciare un discorso estremamente generico contro la guerra e pervaso da un imbarazzante  fatalismo: «La morte – ha detto – cadde dal cielo, e il mondo cambiò per sempre». Le dichiarazioni di Obama sono segnate da un giustificazionismo di fondo, diffuso a piene mani dai mass media, secondo il quale il lancio della bomba servì ad accelerare la fine della guerra, salvando così milioni  di vite umane.

In realtà, la questione è un po’ più complessa. Intanto perché – documenti alla mano – già dal febbraio 1945, dopo la capitolazione di Manila, la diplomazia giapponese, su indicazione dell’Imperatore Hirohito, si era mossa, attraverso Mosca, per arrivare alla fine del conflitto. Fu Stalin a temporeggiare, pronto a non rinnovare il trattato cino-nippo-sovietico di non aggressione ormai in scadenza, per poi approfittare, dopo la sconfitta della Germania,  della debolezza giapponese.  Ma fu anche il presidente  statunitense Franklin Delano Roosevelt ad ignorare le aperture  del Governo di Tokyo, segnalate dal capo dell’Fbi, John Edgar Hoover, rispondendo a queste “aperture”, ancor prima che il suo successore, Harry Truman, autorizzasse l’uso della Bomba,  con una terribile incursione su Tokyo che fece 180.000 vittime.

Dwight Eisenhower nelle sue memorie “Gli anni della Casa Bianca” confessa: “Nel 1945 il segretario alla guerra Stimson, visitando il mio quartier generale in Germania, mi informò che il nostro governo stava preparandosi a sganciare una bomba atomica sul Giappone. Io fui uno di quelli che sentirono che c’erano diverse ragioni cogenti per mettere in discussione la saggezza di un tale atto. Durante la sua esposizione dei fatti rilevanti fui conscio di un sentimento di depressione e così gli espressi i miei tristi dubbi, prima sulla base della mia convinzione che il Giappone era già sconfitto e che sganciare la bomba era completamente non necessario; e in secondo luogo perché pensavo che il nostro Paese dovesse evitare di sconvolgere l’opinione pubblica mondiale con l’uso di un’arma il cui impiego era, pensavo, non più obbligatorio come misura per salvare vite americane.” Sulla stessa linea il Feldmaresciallo Montgomery, che in “Storia delle guerre”, scrive: “Nonostante l’accordo intercorso a Potsdam tra le delegazioni inglese, americana e sovietica, molti, incluso io stesso, consideravano l’uso della bomba contro il Giappone come non necessario, perché quella nazione aveva già iniziato i sondaggi per l’armistizio qualche settimana prima. In ogni caso, i bombardamenti convenzionali avevano svolto sul Giappone un lavoro di distruzione così completo che ben poca era la ‘volontà’ rimasta al popolo giapponese di continuare quella lotta senza speranza”.

Al di là della guerra con il Giappone c’è poi chi vede nelle bombe su Hiroshima e Nagasaki la premessa alla “Guerra fredda” tra Usa e Urss, insomma una sorta di prova muscolare statunitense contro l’ex alleato sovietico, in forte espansione.

A suggellare la querelle le parole di Leó Szilárd, uno dei pochi scienziati del progetto Manhattan contrario al lancio delle bombe atomiche sul Giappone: “Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un crimine di guerra e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati”.

Da un presidente statunitense in carica è oggettivamente difficile pretendere  certe ammissioni di colpa, ma qualcosa di più di un discorso ecumenico e di circostanza era auspicabile  ascoltarlo.

La  storia – come egli stesso ha detto – è fatta di tantissime cicatrici. Di ogni cicatrice però – va aggiunto – bisogna conoscere le vere cause e gli effetti, rispettando il dolore che hanno provocato ed ancora provocano.

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