L’Italia ha addestrato milizie dell’ISIS durante il governo Monti

4 Feb 2016 8:17 - di Redazione

Fra gli 86 dirigenti, capi reparto e responsabili di zona dell’ Aise rimossi e spostati ad altro incarico nel maxi-ribaltone firmato dal direttore del servizio segreto militare italiano, Alberto Manenti, ci sono anche due uomini chiave che gestivano uno la crisi siriana e l’altro quella libica. Il primo ha pagato, oltre alla gestione delle trattative perla liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, anche il fallimento di una altra clamorosa operazione di intelligence, che era stata avviata addirittura alla fine del governo di Mario Monti. Si tratta dell’addestramento di miliziani siriani in due campi uno al confine con la Giordania e l’altro al confine con la Turchia, si legge su “Libero”.

I miliziani siriani formati dall’Italia oggi combattono per l’ISIS

Agenti segreti italiani hanno infatti dall’inizio del 2013 fornito informazioni militari, addestrato alla guerriglia e istruito sulle informazioni di intelligence in quel momento a disposi zione decine di miliziani quasi tutti nativi siriani, e alcuni iracheni. I campi addestramento, che erano noti anche alle principali forze di intelligence intemazionali (comprese ovviamente quelle turche e quelle giordane), vedevano alternarsi gruppi di sei istruttori per campo ogni tre mesi. Ma l’operazione è finita malissimo:praticamente tutti gli addestrati sono divenuti combattenti dell’Isis nei mesi successivi o sono stati arruolati da organizzazioni terroristiche locali, come la stessa Al Nusra che avrebbe poi gestito il rapimento di Greta e Vanessa.

Renzi furioso: ha fatto piazza pulita nell’AISE

L’incidente ha provocato non solo le immediate proteste delle altre intelligence, ma anche più di una segnalazione diplomatica che ha mandato su tutte le furie il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Il caso libico alle spalle del clamoroso ribaltone avviato all’intemo dell’Aise riguarda invece il rapimento dei quattro tecnici della Bonatti di Parma avvenuto in Libia il 19 luglio scorso: Gino Pollicardo, Filippo Calcagno, Salvatore Pailla e Fausto Piano. Sui quattro gli agenti italiani avevano imboccato una pista che doveva portare alla liberazione prima di Natale, probabilmente anche in questo caso con il pagamento di un riscatto. Ma l’operazione è fallita, e probabilmente i servizi avevano a lungo trattato con personaggi che poco o nulla sapevano in realtà di quel rapimento che era avvenuto nei pressi del compound Eni di Mellitah. Quel buco nell’acqua evidentemente ha preoccupato pure i rapitori, ritenuti militanti di Fajr Libya, un raggruppamento di milizie islamiste che aveva preso il potere a Tripoli. Così durante le ultime vacanze di Natale i carcerieri hanno concesso ai quattro tecnici italiani che evidentemente sono vivi di fare una telefonata alle proprie famiglie. Una scelta che serviva ad aprire vere trattative sul riscatto, in assenza di contatti attendibili, ma che allo stesso tempo avrebbe potuto essere molto rischiosa per i rapitori, che avrebbero potuto essere localizzati. Ma anche in questo caso l’intelligence italiana sembra non esserci riuscita. Ben diversamente da quello che è accaduto nello stesso identico periodo per due altri ostaggi, uno austriaco e uno serbo, che lavoravano nello stesso compound Eni dove si occupavano di vigilanza e sicurezza. Anche quei due erano in mano a Fajr Libia. La loro liberazione è stata ottenuta dal tedesco Hermann Baumgertener, capo della Argus Security Projects da cui dipendevano il serbo e l’austriaco, in una trattativa lampo che ha visto nel ruolo decisivo di intermediario un altro tedesco, Bemd Schmidbauer, che all’epoca di Helmut Kohl coordinava i servizi segreti tedeschi. Un parallelo che ha evidenziato ancora di più le lacune dell’intelligence italiana che pure avrebbe dovuto avere relazioni migliori di quella tedesca in Libia (e purtroppo non è più così).

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