Mafia, l’inchiesta in salsa emiliana che ha “miracolosamente” schivato il Pd

2 Dic 2015 19:08 - di Roberto Frulli

Lo hanno accusato di essere uno dei riferimenti della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. E Libera, l’associazione dei professionisti dell’anti mafia capeggiata da Don Ciotti, ha perfino sbattuto il suo nome in un libro-dossier, “Mosaico di mafie e anti mafia. Aemilia, un terremoto di nome ‘ndrangheta“, una sorta di “colonna infame” di manzoniana memoria patrocinata dalla Regione Emilia Romagna, che ha poi fatto circolare fra i ragazzi delle scuole additandolo al pubblico ludibrio con i modi spicci e sbrigativi che contraddistinguono certi giustizialisti di sinistra. Salvo poi essere costretta a scusarsi e a cospargersi il capo di cenere di fronte alle minacce di querela per il grave incidente di percorso. Giovanni Paolo Bernini, ex-Psdi, poi Forza Italia, quindi Pdl, ex-assessore di Parma ed ex-consigliere del ministro Lunardi, accusato di mafia si sente a un passo dalla tanto attesa riabilitazione definitiva e analizza quella che è stata la sua odissea giudiziaria in questi mesi di sofferenza, un percorso a ostacoli, uno slalom infinito fra accuse inverosimili di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio con le ‘ndrine, presunti passaggi di soldi di cui i magistrati non sono riusciti a trovare uno straccio di prova e vanterie telefoniche di alcuni calabresi di Cutro emigrati in Emilia.
La vicenda è quella della maxi-inchiesta “Aemilia”, 117 arresti per le presunte infiltrazioni della mafia nel tessuto sociale e politico-imprenditoriale dell’Emilia Romagna. Un’inchiesta sulla quale pesano le parole roboanti pronunciate nell’immediatezza degli arresti dal procuratore nazionale anti mafia Franco Roberti: «non ricordo, a memoria, un intervento di questo tipo per il contrasto a un’organizzazione criminale forte e monolitica profondamente infiltrata».
Era il 28 gennaio 2015 e oggi, a distanza di quasi un anno da quella maxiretata e a ridosso del processo che sta per aprirsi, si può tirare qualche somma. L’ipotesi accusatoria, così come era stata immaginata e costruita dai pm, è stata praticamete demolita.
Prima il gip e, poi, anche il Tribunale del Riesame hanno scardinato dalle fondamenta le tesi del pm. Che aveva chiesto l’arresto di Bernini con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. «Non appare possibile ritenere configurabile in capo al Bernini la condotta di concorso esterno e quella del voto di scambio», scriveva il gip il 15 gennaio nel suo provvedimento con il quale rigettava la ricostruzione prospettata dal pm. Che ricorreva al Tribunale del Riesame. «Il Collegio condivide – scriverà il Riesame dando nuovamente torto al pm e alle sue tesi e ragione al giudice – le conclusioni del gip». L’ennesima doccia fredda per l’accusa. Che nei giorni scorsi, nonostante tutto, ha chiesto, comunque, il rinvio a giudizio di Bernini di fronte al gup con accuse di mafia.
In ballo ci sono le chiacchiere telefoniche, intercettate dalla Procura di Catanzaro e poi trasmesse ai colleghi di Parma, fra due calabresi, Romolo Villirillo, ritenuto il promotore, l’organizzatore e il capo della locale emiliana della ‘ndrina cutrese, e Pietro Antonio Salerno, in prossimità delle elezioni amministrative di Parma del maggio 2007.
I due parlano insieme ad altri dell’appoggio elettorale della mafia da fornire a Bernini, all’epoca presidente del Consiglio comunale di Parma, per farlo eleggere nella nuova tornata elettorale.
Un conoscente di Bernini, l’imprenditore Giovanni Gangi, fa incontrare al politico diverse persone durante la sua campagna elettorale. E, fra i tanti, anche Pietro Antonio Salerno. Si domanda oggi Bernini: «Come facevo a sapere che questa persona che partecipava ai miei incontri era vicina alla ‘ndrangheta? Non sono un investigatore, non avevo né potevo avere alcuna informazione di quel genere e non avevo alcun elemento per ritenere che questa persona, come le tante, tantissime, che ho incontrato in campagna elettorale, fosse in qualche maniera compromessa con la criminalità. Per quel che mi riguarda era una delle tante persone che, in campagna elettorale, promettono il proprio voto. Rigetto l’idea che si vuol far passare che non dovrei stringere la mano o incontrare persone meridionali solo perché potrebbero essere compromesse con la criminalità».
In cambio di 200-300 voti, secondo la ricostruzione dell’accusa basata sulle parole degli intercettati, Bernini – che alle elezioni prese circa 1.800 voti – avrebbe promesso 50.000 euro, ne avrebbe consegnati come anticipo 20.000 addirittura con un bonifico, e avrebbe aiutato la ‘ndrangheta a ottenere lavori e appalti a Parma nel momento in cui fosse stato eletto.
Il problema è che le prove del bonifico, nonostante le molte ricerche dei pm, non si trovano. Non risultano passaggi di soldi di alcun genere fra Bernini e gli uomini della ‘ndrangheta. Annota, non senza un pizzico di ironia, Bernini: se, come ipotizzano i pm, sapevo che erano mafiosi che senso aveva pagarli con un bonifico? Ma su questo non c’è dubbio: i magistrati sono certi che si è trattato di un bonifico. E indicano pure il nome del percettore del bonifico che avrebbe poi triangolato la somma fra Bernini e gli uomini delle cosche: il prestanome Francesco Balduino. L’esame dei conti, tuttavia, non è riuscito a dimostrate la tesi del pm. Quel bonifico da 20.000 euro non è mai saltato fuori.
Ma la questione in cui si sono incartati i pm è un’altra: il concorso esterno in associazione mafiosa presuppone che una persona sia cosciente di agevolare i mafiosi. E’ la conditio sine qua non. Nel caso di Bernini, appunto, la domanda è: era cosciente di agevolare i mafiosi? Sapeva che erano mafiosi? E se sapeva che erano mafiosi che senso aveva pagarli con un bonifico che, peraltro, non è mai stato trovato? I conti, insomma, non tornano. Sotto tutti i punti di vista.
Peraltro i giudici del Tribunale del Riesame vanno oltre e sottolineano che, se anche fosse provato questo passaggio di soldi, cosa che non è stata provata, non è neanche voto di scambio mafioso ma corruzione elettorale, semmai. Ed è oramai prescritta.
Sul fatto di riuscire a lasciarsi questa vicenda alle spalle, Bernini oramai non ha dubbi. Ma c’è qualcosa che proprio non gli va giù. Ed è il modo in cui il Centrosinistra ha “schivato” l’inchiesta. «Ci sono due domande che mi faccio: come mai sono stati graziati questi del Pd? Le intercettazioni parlano chiaro. Ci sono nomi, cognomi e fatti ben precisi. Eppure nessuno di quelli del Pd chiamati in causa nelle intercettazioni è stato indagato e, tantomeno, ne è stato chiesto l’arresto come è accaduto, invece, per noi due esponenti di Forza Italia. E non è solo questo. Vorrei capire come mai la giunta regionale dell’Emilia Romagna – una giunta di centrosinistra – ha pagato l’allestimento della sala dove si svolge il processo, centinaia di migliaia di euro. Guarda caso non c’è un amministratore del Pd che viene indagato. Gli unici due indagati – io e l’avvocato Giuseppe Pagliani, consigliere comunale arrestato – sono di Forza Italia».
Bernini cita, ad esempio, il caso di Graziano Del Rio, allora sindaco di Reggio Emilia che viene sentito come persona informata sui fatti.
Ed è un mistero, secondo Bernini, anche il motivo per cui, nonostante siano ampiamente e a più riprese citati nei provvedimenti della Dda per aver avuto sostegno elettorale dalla ‘ndrangheta, né l’ex-sindaco Pd di Salsomaggiore Terme, Massimo Tedeschi, pesante esponente del Pd locale dei Democratici di Sinistra, che alla Camera dei Deputati prenderà il posto di Pier Luigi Bersani eletto a sua volta europarlamentare , né Pierpaolo Scarpino eletto con il Pd in consiglio comunale di Parma, non vengono neanche indagati. «Noi vi facciamo vedere i fatti, i risultati, non le chiacchiere!!! – si infervora il ‘ndranghetista Romolo Villirillo spiegando così, intercettato, mentre conversa con altre persone, l’impegno profuso dalle cosche nella raccolta dei voti per il Pd – Come gli abbiamo fatto vedere i risultati a Tedeschi!!».

Quanto a Scarpino, «nel 2012, in piena campagna elettorale», scrive sempre il pm, i carabinieri intercettano una conversazione inequivocabile «in cui si evince l’interessamento diretto…. nell’indirizzare il flusso elettorale della cosca nei confronti del candidato del Pd Scarpino Pierpaolo». Addirittura «Francesco Scarpino, fratello del candidato Pier Paolo, invita zio Gino Frijio (imprenditore cutrese accusato di estorsioni mafiose, ndr) alla festa di ringraziamento per il sostegno ottenuto in campagna elettorale». Ma neanche Scarpino viene indagato. I pm lo ritengono estraneo alla vicenda.

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