Ecco come Putin ha trasformato la Russia in superpotenza mondiale
Una parentesi lunga quasi 30 anni. Per la precisione, 26 e rotti. Ovvero dal disastro afghano, dal successivo crollo del muro di Berlino, fino ad arrivare, come in un domino, alla dissoluzione, nel 1991, del grande impero sovietico. Da allora l’Armata Rossa, declassata quasi a “polizia” della Federazione Russa, è intervenuta solo in tante “guerre di cortile” lungo le frontiere “calde” della madrepatria: Transnistria, Tagikistan, Cecenia, Dagestan, Georgia. Tutti dentro i confini dell’ex Urss.
La Russia torna superpotenza mondiale
Ora il risveglio. Con l’annessione della Crimea, nel 2014, Putin ha lanciato un primo segnale. Come già mostrato nel 2008 con la Georgia – il suo presidente di allora, Mikhail Saakashvili, aveva indicato di voler entrare a far parte della Nato – la Russia non si sarebbe voltata dall’altra parte davanti a una limitazione nella propria sfera d’influenza, vera o percepita che sia. Ota l’affondo. In Siria Mosca torna a essere un global player, sia dal punto di vista militare, conducendo azioni sul campo con la propria tecnologia, sia da quello diplomatico, sfruttando il “palcoscenico” dell’Onu per imporre il suo punto di vista. Ed è subito ritorno al passato.
Gli anni dell’impero
Le macerie della II Guerra mondiale – come ricordato dall’Ansa – sono ancora fumanti quando in Corea (1950-1953) gli ex alleati della Russia contro Hitler (Gran Bretagna e Usa) scelgono di combattere la Cina di Mao assistita da Stalin. La neonata Cold War in questo caso si fa calda. Passa un niente e la crisi di Suez (1956) incorona la Russia come la superpotenza che può mettere fine alla “sortita” britannica e francese senza in pratica sparare un colpo ma solo minacciando il suo intervento al fianco dell’Egitto. Gli Usa fanno pressioni e la Gran Bretagna sospende l’offensiva, di fatto perdendo il rango di “grande fra i grandi”. Dello stesso anno è la crisi ungherese, in cui Mosca invece interviene eccome, inviando i carri armati a Budapest per stroncare la rivoluzione anti sovietica. Poco più di dieci anni dopo (1968) il Cremlino interverrà nuovamente nell’Europa dell’est invadendo la Cecoslovacchia e “certificando” l’assoluta determinazione a mantenere il controllo del blocco di Varsavia.
La guerra “per sostegno” a Paesi terzi
Altrettanto intensa è la guerra condotta “per sostegno” a paesi terzi. È il caso del Vietnam (1955-1975), in cui l’Urss ha affiancato con mezzi e supporto strategico i vietcong; o quello di Cuba, che ha portato il mondo sull’orlo del conflitto atomico con la crisi dei missili del 1962. C’è poi l’impegno sovietico in Africa: la guerra civile in Congo (1960-1965), dove Mosca aiutò la fazione opposta a quella appoggiata dagli americani, la guerra d’indipendenza eritrea (1961-1991), in cui il Cremlino si schierò dalla parte dell’Etiopia (così come nello scontro con la Somalia nel ’78-’79) o la guerra civile in Angola (1975-1991). E infine il conflitto in Afghanistan (1979-1989), che segna la sconfitta sul campo dell’Armata Rossa.
Addio alle armi, o quasi
Con il crollo dell’Unione Sovietica la Russia ripiega la sua azione limitandosi a intervenire nelle aree di crisi al limite dei suoi confini o parte, fino al 1991, del grande impero. Ecco allora il breve conflitto in Transnistria (1992), le guerre civili in Tagikistan e Georgia, fino alla prima guerra cecena (1994-1996), in cui le truppe di Mosca di fatto vengono sconfitte. Le ostilità sono poi riprese nel 1999, quando Vladimir Putin era ancora primo ministro (diventerà presidente reggente il 31 dicembre 1999). Nel 2009 il conflitto termina con la vittoria di Mosca, che riporta la regione sotto il suo controllo. È il primo passo verso la riconquista della “dignità imperiale” che lo zar Putin restituirà all’orso russo.