Da Gianni Brera a “Peppone e don Camillo”: tutti i fan del sacro Piave

23 Mag 2015 16:49 - di Mario Landolfi

Il Piave è il Piave. Nel suo letto non scorrono solo le sue acque bensì la memoria collettiva di una nazione che proprio lì, su quelle sponde, seppe ritrovarsi popolo in armi dopo la tragedia di Caporetto. È lì che si sono forgiate e hanno trovato compimento l’unità e l’identità nazionale. Merito del sacrificio di soldati partiti – come si diceva allora – dalla Bassa e dall’Alta Italia per una guerra le cui motivazioni profonde forse neppure capivano, ma che pure dovevano combattere. Di certo, nessuno di loro poteva immaginare che la storia li stava scegliendo per renderli protagonisti del più cruento conflitto mai prima conosciuto dall’umanità, la Grande Guerra.

Il Piave entrò nel mito popolare grazie a E.A. Mario, compositore napoletano

In compenso, in quell’assaggio di estate del 1918, tutti capirono che il nemico non lasciava alternative: «Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!», scrisse una mano ignota e consapevole sulla facciata di una casa semidiroccata in quel di Sant’Andrea di Barbarana, nel Trevigiano. E la missione fu compiuta: divennero tutti eroi. Eroi del popolo, perché il ricordo personale di ogni fante si tramutò, come d’incanto, nel piccolo paragrafo di un’immensa storia collettiva, mito nazionale capace di affasciare e affascinare intere generazioni di italiani prima che la retorica dell’antiretorica cancellasse dal Pantheon popolare i nomi di Enrico Toti, Nazario Sauro, Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti. Ma fu solo grazie alle note di un geniale compositore come E.A. Mario, napoletano al pari di Armando Diaz, il generale della vittoria, che il Piave cominciò la sua epopea di «fiume sacro alla Patria».

Nel letto del «fiume sacro alla patria» scorre anche l’orgoglio nazionale

Da allora dire Piave è dire Italia. Ma non l’Italia da cui prendiamo volentieri le distanze, tanto «italiani sono sempre gli altri», come ben sapeva Francesco Cossiga che così titolò un suo libro, bensì l’Italia che ci inorgoglisce e ci unisce, di cui il fiume è insieme simbolo e limite estremo, invalicabile, di fronte al quale persino il nostro feroce autolesionismo è costretto ad inchinarsi. «Razza Piave» coniò il genio giornalistico di Gianni Brera per celebrare la potenza e la disciplina di campioni come Tarcisio Burnich o Gigi Riva. E, passando al cinema, bastò solo la prima nota della “Leggenda del Piave“, perfidamente amplificata da don Camillo, a mandare letteralmente in tilt il comunista Peppone fino a fargli gridare un perentorio “presente!” in chiusura di un infuocato e superpatriottico comizio. “Presente”, il saluto che si rende al soldato caduto. Quasi a dimostrare che è solo il suo corpo a non esistere più, non certo il suo spirito. Guarda caso, è la stessa parola che ossessivamente campeggia a Redipuglia, nel sacrario dove gli eroi del Piave – ne siamo certi – ancora vegliano, in attento ascolto del mormorio del “loro” fiume.

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