Tempi davvero duri se anche nel calcio trionfa il politicamente corretto

15 Ott 2014 15:34 - di Mario Aldo Stilton

Tempi duri se neppure il calcio si salva dal conformismo. Quella che era l’oasi dello sfottò e del godimento salace si sta tramutando nell’ennesimo banale ossequio al politicamente corretto. Mi vergogno di essere juventino, ha spiegato Marco Travaglio subito dopo Juve-Roma delle polemiche; mi vergogno anch’io ci fa adesso sapere Antonio Di Pietro pronto a candidarsi Sindaco di Milano. Assurdo. Inconcepibile. Ma siamo matti? Qualunque tifoso, di qualsiasi squadra, sogna da sempre di vincere una partita come quella che si è giocata a Torino. Uno, due rigori dubbi o inesistenti, un gol in fuorigioco e tre punti. Libidine pura.  Incommensurabile goduria. Che tale sarebbe stata anche a parti invertite. Il solo pensiero degli avversari che rosicano, che masticano amaro, è impagabile. Lo è sempre stato. Fin da quando eravamo bambini. Era il desiderio che diventava realtà. Come la pubblicità di quella nota carta di credito: un sogno che non ha prezzo. Ma quest’Italia ipocrita e piagnona sembrerebbe voler negarci anche il più innocuo dei godimenti. L’ ultima valvola di sfogo rimasta. Nemmeno si può più dire peste e corna dei rivali, degli avversari. Non ci si può augurare il massimo della fortuna, come tutti noi patiti del pallone abbiamo sempre fatto, né  si può sperare di vincere una partita a tempo scaduto e magari con un bell’autogol degli avversari. No, tutto quello che abbiamo sempre sognato, tutto quello in cui  abbiamo sempre creduto, adesso deve andare al macero. Perché fa più chic, forse. Perché, vuoi mettere, la cultura calcistica? Perché semplicemente si confonde l’onestà con la passione. E quindi non si ha più la forza di rivendicare quel che un tempo era quasi scontato, naturale, ovvio. Perché la squadra del cuore, fin dalla più tenera età, è una e una soltanto. E perché come la mamma non si cambia, ma la si difende e la si venera sempre e comunque. Perché almeno in questo tutti, ma proprio tutti i tifosi, a tutte le latitudini, si sono sempre riconosciuti. La palla è rotonda, è maledetta, è dannata, ma se entra nella porta avversaria è tutto ciò che conta. E se entra colpita di mano, come fece Diego Armando Maradona nella porta inglese, non è certo una bestemmia di cui vergognarsi: è la «mano de Dios!». È l’attimo che ti dà l’estasi. È, per l’appunto, libidine pura. E l’arbitro, quello sì, è sempre cornuto.

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