Cucchi, il Pg chiede un inasprimento delle pene: Stefano fu picchiato dagli agenti penitenziari

23 Set 2014 16:14 - di Redazione

Ribaltare la sentenza di primo grado e condannare tutti gli imputati del processo con un deciso inasprimento delle pene. È la richiesta del Pg, Mario Remus, nel processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato per droga e deceduto una settimana dopo in ospedale.
La richiesta del pg è arrivata a conclusione della sua requisitoria nel processo d’Appello davanti alla Prima Corte d’assise d’appello di Roma. In primo grado gli agenti e gli infermieri erano stati assolti dalla Terza Corte d’assise, erano stati condannati solo i medici a pene comprese tra i 2 anni e 1 anno e 4 mesi. Per l’accusa Cucchi fu pestato nelle celle del palazzo di Giustizia poco prima dell’udienza di convalida del suo arresto, abbandonato da medici e infermieri che lo ebbero in cura nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini.
Secondo il Pg romano, Stefano Cucchi fu “pestato”, ma l’aggressione avvenne dopo l’udienza di convalida del suo arresto per droga. Ed è questo il vero colpo di scena emerso in aula dalle parole del Procuratore generale che rimescola le carte perché, secondo l’accusa sostenuta in primo grado, Cucchi era stato picchiato nelle celle del Palazzo di Giustizia poco prima dell’udienza di convalida.
Tutto ciò ha comunque consentito al Pg di giungere a una richiesta di condanna anche per gli agenti della penitenziaria che ebbero in cura Cucchi, e che in primo grado erano stati assolti.
«C’è la prova che Stefano non avesse segni di aggressione violenta prima di arrivare in udienza – ha detto il Pg – L’aggressione è avvenuta dopo l’udienza di convalida dell’arresto e prima della sua traduzione in carcere». Tant’è che «in udienza ha battibeccato, si è alzato più volte, ha scalciato un banco; certo non avrebbe potuto farlo e fosse stato fratturato».
Per il rappresentante dell’accusa «la localizzazione delle lesioni sul corpo di Stefano non porta a credere che siano state causate da una caduta accidentale, bensì da una aggressione vera e propria. Stefano era di una magrezza eccezionale; il suo esile corpo ha scattato la fotografia di un’aggressione volontaria e intenzionale». La certezza espressa dal Pg Remus è che Stefano Cucchi «è stato aggredito dagli agenti della Polizia penitenziaria che lo avevano in custodia».
Quanto ai medici che ebbero in cura Stefano nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma, struttura nella quale morì una settimana dopo il suo arresto, essi offrirono «cure inadeguate». E «lo dicono chiaramente – secondo il Pg Remus – i numerosi consulenti che sono stati sentiti in udienza nel corso del processo di primo grado».
Per il rappresentante della pubblica accusa, correttamente i giudici di primo grado hanno condannato i medici per omicidio colposo (5 su sei, l’ultimo fu condannato per falso). Cosa diversa per gli infermieri di cui ha chiesto la condanna, ribaltando la sentenza assolutoria disposta dalla III Corte d’assise. «La trascuratezza dei medici appare ingiustificabile – ha detto il Pg Remus – Stefano entra in stato di detenzione in condizioni fisiche già precarie, magro, emaciato, con poca massa muscolare. Era un paziente fisicamente difficile che richiedeva cure particolari e non ordinarie».
E le condotte contestate agli infermieri, secondo la pubblica accusa, sono accomunabili a quelle dei medici, anche se per entrambi «non ci fu una deliberata volontà di non curare Stefano».
Una ricostruzione che viene contestata apertamente da uno degli infermieri nel corso di dichiarazioni spontanee rilasciate al processo d’appello: «Io ho sempre fatto il mio dovere, ho sempre cercato di aiutare Stefano, ma lui non l’ha voluto», sostiene l’infermiere Giuseppe Flauto, uno degli imputati nel processo per la morte di Cucchi.
«Sono passati cinque anni da quel giorno – ha aggiunto – Cinque anni in cui mi è cambiata la vita, gli affetti, il lavoro e la salute. Ancora oggi non si sa se Stefano è stato picchiato e da chi. Ancora oggi non riesco a capire perché sto qua, per quale motivo sono sotto processo».
Per l’infermiere, «il pm ha voluto prendere nel mucchio noi infermieri, accusandoci di non aver fatto determinate cose in determinati giorni. A me è contestata la condotta in due giorni nei quali non ero nemmeno in servizio. Ma dov’è questa negligenza che mi viene contestata? La verità è che abbiamo cercato di aiutare Stefano altro che negligenza e imperizia».
Ovviamente soddisfatto della ricostruzione Giovanni Cucchi, padre di Stefano: «Sono molto soddisfatto – ha detto – dell’esposizione del consigliere relatore, che è stata lucida, precisa e a favore della ricerca della verità; ma anche della lucidità e completezza della relazione del procuratore generale. Il giudizio non può che essere positivo, anche se alcuni lati dovranno essere sviluppati dai nostri avvocati. Ci sono le premesse perché da questo processo esca finalmente la verità. Noi la chiediamo con forza, senza chiedere assolutamente alcuna vendetta».
Anche da parte del legale della famiglia, il giudizio è positivo: «Condivido ogni parola di critica espressa dal Pg – ha commentato l’avvocato Fabio Anselmo – Sono rimasto colpito dall’efficacia del suo intervento. Ritengo che ci abbia aperto le porte per il riconoscimento della nostra tesi dell’omicidio preterintenzionale».
Fortemente critico, viceversa, il legale di uno degli agenti, l’avvocato Diego Perugini: «Sorpresa in aula. Oggi abbiamo scoperto che, per i pm, Stefano Cucchi è stato pestato prima dell’udienza di convalida; per la sentenza di primo grado, forse durante il suo arresto; e per il Pg, dopo l’udienza di convalida. Il Procuratore generale non ha fatto altro che aggiungere al dubbio altri dubbi».
«L’assunto accusatorio sostenuto finora – ha aggiunto Perugini – è completamente caduto. La sentenza di primo grado è confermata nelle sue basi, i testimoni sono definiti inattendibili. Ma il Pg non ci ha detto da chi sarebbe stato picchiato Stefano, dimenticando di dire chi tra i carabinieri che lo hanno portato nelle celle e gli agenti lo avrebbe picchiato; e dimentica di dire sulla base di quale testimonianza può sostenere ciò che ha detto nella sua relazione».

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