Belpaese sempre più fragile con le imprese stremate dal fisco e l’economia in picchiata

29 Lug 2014 13:36 - di Silvano Moffa

Un Paese fragile, malmesso, ridotto allo stremo. Ogni volta che arriva un dato aggiornato sull’andamento della nostra economia c’è da mettersi le mani nei capelli. La situazione nel suo complesso non migliora affatto. Anzi, peggiora. Quel che è peggio: la reazione è sempre la stessa. Nel senso che non si intravede alcun cambiamento di rotta, o “di verso”, per usare il linguaggio renziano. Eppure da almeno tre anni collezioniamo record negativi in ogni settore e ad ogni livello. L’ultimo record lo fornisce uno studio della Confcommercio. Riguarda, manco a dirlo, la pressione fiscale. Su un euro di prodotto  dichiarato al fisco in Italia si pagano mediamente 53,2 centesimi di imposte, la frazione in assoluto più elevata tra le economia avanzate. Un livello intollerabile. Un veleno per la crescita, come afferma la Confcommercio. Oltre un certo limite la tassazione diventa un ostacolo, un freno allo sviluppo. Questa che appare persino una ovvietà invece fatica ad entrare nella testa di chi governa. In Italia quel limite lo abbiamo abbondantemente superato. In altri Paesi, dove la tassazione è più bassa, non solo lo Stato incassa di più, ma è l’economia a crescere nel suo insieme. Se, al contrario, il fisco imperversa sulle tasche dei contribuenti e sulle casse delle imprese, a reggere è soltanto il sommerso. Da noi, ormai da tempo, il sommerso si è abbondantemente attestato al di sopra del 17 per cento. Anche questo è un dato che non si riscontra in nessun altra parte del mondo sviluppato. Eppure secondo gli esperti che hanno confezionato lo studio richiamato, basterebbe ridurre di un 10 per cento le aliquote legali, aumentare i controlli e ridurre i costi degli adempimenti fiscali, per intaccare sensibilmente (addirittura del 18%) l’entità del fenomeno. In soldoni, si tratterebbe di circa 23 miliardi di risorse aggiuntive. Più o meno quanto servirebbe per colmare l’attuale buco di bilancio.
Dicevamo dei dati negativi della nostra economia. Ebbene: da tre anni in qua, almeno da quando la famosa lettera della Bce indirizzata al governo Berlusconi ci ha ridotto ad essere un Paese che viaggia con il pilota automatico innescato, ossia sotto comando di Bruxelles e Berlino, non c’è un segno positivo che possa confortarci. Nessuna luce si intravede in fondo al tunnel. La disoccupazione è in picchiata. Eravamo all’8,8 % nel 2011. Siamo precipitati al 12,8%. Quella giovanile è salita, nel frattempo, di tredici punti percentuali, toccando il 43%. Il debito pubblico era al 120,7% e ormai viaggia verso quota 140. Gli 80 euro messi nelle buste paga di chi ne guadagnava 1500 al mese sono serviti a pagare le tasse e qualche rata di mutuo. Non sono serviti ad incrementare i consumi che si sono ulteriormente contratti, in barba alle previsioni, evidentemente sballate, del premier Renzi. Così, appunto, l’Italia langue. Ci vorrebbe uno shock per rimetterci in sesto, si sente dire in giro. Vero. A patto che lo shock non si trasformi nel solito salasso per un Paese esangue e agonizzante.

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