Panico, risse e malori: l’incubo della Concordia rivive in aula nei ricordi degli scampati

13 Mag 2014 17:40 - di Redazione

Il tuffo nel passato è un esercizio doloroso ma necessario. Ricordare quei momenti tremendi richiede uno sforzo enorme, è una sofferenza che si sfoga più volte in un pianto liberatorio. Sfilano uno dopo l’altro di fronte ai giudici di Grosseto nel processo per il naufragio della Concordia al Giglio, i testimoni di quella terribile notte, quanti, a un certo punto, videro la morte in faccia, pensarono di non farcela, lottarono con tutte le proprie forze per salvare figlie familiari.
E nei racconti quei momenti prendono la forma di un incubo che ancora tortura i naufraghi. C’è chi non dorme più, chi non è stato più in grado di lavorare, chi ha riportato traumi psicologici disastrosi, chi scoppia, all’improvviso, in pianti disperati e irrefrenabili.
Un passeggero, Walter Cosentini, di Cosenza, ricorda, con una testimonianza drammatica quelle ore passate a bordo dopo l’urto contro gli scogli, prima di riuscire a salvare la sua famiglia, la moglie e due bimbi di 10 e 4 anni. Nel naufragio, ha ricordato oggi in aula, «ebbi sempre un pensiero fisso: se stavo facendo tutto quello che potevo per salvare la mia famiglia».
Il teste ha riferito episodi drammatici come quando, mentre la nave si inclinava sempre di più, «solo facendomi forza, ho protetto mia figlia di quattro anni e mezzo mentre rischiavo di schiacciarla sotto la pressione della calca, temetti di ucciderla. La gente ci chiedeva scusa, ma la massa ci veniva addosso involontariamente», poi «ho dato mia figlia a uno, che era sopra di noi, ma con mia moglie la perdemmo di vista. Mia moglie strisciando andò a cercarla, si tagliò tutta la schiena, ma la ritrovò».
«La nave inclinava di più, e piano piano iniziammo a scivolare, raggiungemmo la parete-vetrata, diventata pavimento», ha ricordato ancora. Ad un certo punto «mia moglie ebbe un attacco di panico, con le mani si tappò occhi e orecchie: «Non voglio vedere, non voglio sentire la gente che urla» e poi diceva «La colpa è mia, perché io ho voluto questa crociera…». Nella calca, Walter Cosentini, ha ricordato di quando «un uomo mi venne addosso, e persi una lentina. Io ho problemi di vista importanti, così a mia moglie dissi «Se perdo l’altra lente, lasciatemi qui, perché non posso esservi d’aiuto». Verso le 2-2.15 «arrivammo presso una biscaggina ma alcuni disabili non potevano raggiungerla per scendere».
«La gente chiamava casa dicendo che cosa succedeva. Chiamai mio fratello a casa. «Stiamo affondando», gli dicevo, ma non ci credevano». Tra i naufraghi si diceva anche «Qui moriamo, facciamo la fine del Titanic».
«Salimmo su una lancia di salvataggio. Mia moglie vomitò, poi al Giglio ha avuto un collasso. I bambini non volevano prendere il traghetto per andare a Santo Stefano».
Ancora più drammatica la testimonianza di un’altra naufraga, Debora Incutti di Cosenza, che, più volte, mentre raccontava, si è interrotta piangendo: «Andai a prendere i giubbotti salvagente e ci trovai una rissa. Anch’io mentre mi avvicinavo venni tirata indietro per i capelli» da chi mi voleva passare avanti. «Erano scene da film» e quando «andammo alle scialuppe, c’erano altri passeggeri che tiravano pugni per salire sopra».
Nel suo ricordo anche il momento difficile di quando «presi la decisione di affidare la mia bambina a un filippino dell’equipaggio perché la portasse via su una scialuppa. Misi in una tasca della bimba la carta d’identità affinché, quando avesse raggiunto terra, potessero eventualmente identificarla». Poi comunque la passeggera sbarcò con la bimba al Giglio e vennero accolte come altri naufraghi dalla popolazione. A distanza di due anni «ancora – ha testimoniato il marito Vincenzo Barbieri – a casa ci svegliamo la notte di colpo, non riusciamo a dormire, anche le bambine hanno paura, nella nostra casa non si dorme più». La famiglia è in cura da psicologi, così come altri passeggeri che non riescono a superare i momenti terribili del naufragio. Tra gli episodi ricordati oggi anche quello del passeggero Domenico Garritano: «Vidi mia moglie in stato di choc, allora la presi a schiaffi per farla riprendere, non potevamo rimanere sulla nave». «Per salvare mia moglie dallo schiacciamento nella calca – ha detto – ho avuto una distorsione di una spalla e lo sfilacciamento di un tendine». Il teste e i suoi familiari hanno chiesto a Costa Crociere un risarcimento di 1 mln di euro.
Uno dopo l’altro i naufraghi consegnano ai giudici di Grosseto i loro terribili ricordi e quelle che sono state le conseguenze nella vita quotidiana. Una vita che, nella maggior parte dei casi non è più quella di prima. Non può esserlo, il trauma è stato troppo forte.
«Prima del naufragio avevo un lavoro. Ora non faccio più niente. Inoltre mi sono trasferita da Latina a Seregno, in Lombardia, per essere vicina alla struttura specialistica dove mi curo. Dopo il naufragio avevo dolori alla pancia, venni sottoposta a una visita neurologica e poi a terapie presso uno psichiatra e una psicologa», rivela la passeggera della Concordia, Tania Novella di Latina, che era in viaggio di nozze col marito.
La teste ha pianto più volte tanto che il presidente Giovanni Puliatti, per farla riposare, ha interrotto l’udienza cinque minuti. Quando la Concordia urtò gli scogli, ha raccontato, «sentimmo la botta, era come un forte terremoto. La nave si inclinava, volammo giù dalle sedie, volò di tutto, piatti, oggetti. Io sbattei la testa in terra. La gente era agitata, andava in ogni direzione». Sulla nave «la luce andava e veniva. Dall’altoparlante dicevano:«Stare tranquilli, è solo un black out», quando «la nave si è raddrizzata, allora abbiamo pensato che le cose si sarebbero aggiustate, invece la nave si piegò dall’altra parte. E’ scoppiato il caos». Poi la teste si diresse verso le lance di salvataggio: «Non c’erano spazi per camminare, eravamo troppi, tutti schiacciati l’un l’altro. Facevamo a spintoni per salire prima degli altri sulla scialuppa», perfino «mi sono sentita in colpa perché ho pensato che al posto mio potevo far passare qualche bambino».
Un’altra teste, Chiara Castello di Biella, in un altro racconto drammatico in cui ha pianto più volte ha anche detto: dopo l’urto «ero con la mia famiglia, non ascoltammo gli annunci di rientrare nelle cabine e ho portato la famiglia sui ponti, dove non c’era nessuno, neanche personale dell’equipaggio, mentre la nave si inclinava sempre di più. A uno dell’equipaggio chiesi: «Mi può dare informazioni?». Mi rispose «Non si preoccupi, va tutto bene», ma aveva le lacrime agli occhi». Prima di poter salire sulle scialuppe, la teste è rimasta bloccata nella calca coi familiari. A un certo punto, ha detto, «siamo stati travolti, sono passati sopra mia figlia di 3 anni. Con mio marito però siamo riusciti a mettere la bambina in un oblò così che poteva respirare».
Panico anche per imbarcarsi sulla scialuppa («nell’attesa caddi tre volte con la bambina in collo, e siccome non ci facevano salire urlammo come pazzi»), imbarcazione che poi cadde coi naufraghi a bordo durante lo sganciamento a mare. «Sbarcammo al Giglio – ha ancora detto Chiara Castello – vidi che gran parte dell’equipaggio era a terra, e c’erano ben pochi passeggeri, che facevano?».
I giorni successivi, tornata a casa, «cadevo nelle stanze, urlavo, piangevo, non riuscimmo a mandare avanti la nostra attività, un negozio, non andammo a lavorare per molto tempo Sono stata in cura da uno psichiatra un anno e mezzo. Ho avuto attacchi di panico continui, ho avuto terrore di tutto».
Nelle pieghe del processo spunta un piccolo assist per i naufraghi. Con una sentenza il Tar del Lazio ha deciso che per avere copia informatica dell’enorme mole di atti inseriti nel fascicolo processuale sul naufragio della Concordia dovrà essere pagato un “diritto di copia” forfettario di solo 295 euro e deve essere restituito l’eccedente rispetto ai più di 5mila euro al momento versati. I naufraghi costituitisi parti civili, per acquisire il materiale informatico probatorio disponibile, si erano visti chiedere 295,16 euro di diritti di copia per ognuno degli 82 supporti informatici presenti in Cancelleria, ovvero più di 24mila euro. In tempi di spending review il Tar non ha avuto difficoltà a dare ragione ai naufraghi e torto al Tribunale.

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