L’Aquila, la rabbia di una ragazzina che non si dà pace: «Quei morti si potevano evitare»

5 Apr 2014 20:15 - di Antonella Ambrosioni

I 309 rintocchi delle campane urlano nella notte nel ricordo delle 309 vittime rimaste sotto le macerie. Il sisma dell’Aquila avvenuto nella notte tra il 5 e il sei aprile di cinque anni fa va ricordato non solo per l’orrore di quelle morti che portiamo cucite nel cuore, ma anche per

l’orrore inaccettabile di vedere morire le persone dentro case mal progettate e peggio costruite, nonostante una legge antisismica degli Anni Quaranta. Cinque anni sono passati da quel giorno, tante le cerimonie per non dimenticare, ma forse le parole che più racchiudono la rabbia e il dolore sono racchiuse in una lettere scritta da un ragazza aquilana di 16 anni, studentessa del Liceo Scientifico dell’Itis dell’ Aquila, appena tornata a casa da scuola. «Mi è venuta di getto». E l’ha mandata alla mamma su whatsapp. Una vita segnata. «Sono passati cinque anni. Alcuni pensano che sono pochi, altri pensano che sono molti, ma il frastuono della terra che si muove, le urla, il rumore assordante di quelle ambulanze riecheggia nelle nostre orecchie. I ricordi ci sovrastano la mente e ci viene solo da dire “perché proprio a NOI, che cosa abbiamo fatto?”. Dopo cinque anni ancora non mi sento a casa, ho ancora paura, ancora sento quel boato immenso di quell’orribile mostro».

Poi la rabbia: «Sono passati cinque anni – scrive la studentessa – e solo ora, quando mi affaccio dal balcone che guarda le mura del centro, vedo gru, vedo alcuni lavoratori, sento i rumori degli operai che lavorano incessantemente nei cantieri. Tutto questo perché non si poteva fare prima?». La domanda è già una condanna, ma non serve ad alleviare il dolore, la rassegnazione a un destino beffardo. «Penso che non riuscirò mai a rivedere L’Aquila come l’ho vista il sabato del 5 aprile 2009», ricorda Alessia. «C’erano molti ragazzi, persone che si amavano camminando mano nella mano, anziani che prendevano il gelato. Si sentivano risate. C’era allegria. C’è sempre stata allegria qui». Ora si sta cercando di ridare un po’ di vita a questa città piena di spaccature, crepe e voragini. «Ancora oggi c’è speranza nei nostri cuori. Siamo in grado di alzarci e combattere». Ma senza dimenticare mai che tutto ciò poteva essere evitato. «In fin dei conti – conclude in maniera disarmante e struggente – cosa ha fatto la terra? Sappiamo tutti che la terra è viva, che si muove costantemente sotto di noi, non possiamo fare nulla, questa è chiamata Natura. Cosa potevamo fare? Potevamo costruire case più sicure e magari non costruire su zone che si sono già rivelate non adatte alla costruzione di case. Potevamo evitare tutti quei morti? Io credo di sì».

 

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