Quel maledetto 7 gennaio di 36 anni fa: non c’è stata giustizia per i tre giovani missini

7 Gen 2014 16:16 - di Redazione

Le bestemmie. Una gragnuola di bestemmie urlate al di là della porta. Quelle gli sono rimaste impresse nella mente. E la sensazione, terribile, che fra lui e i suoi killer ci fossero solo quei pochi centimetri. La distanza fra la vita e la morte era una porta in ferro dietro alla quale aveva trovato riparo. Sentiva il loro respiro. I pugni e i calci sulla porta. E sentiva quelle bestemmie. Bestemmiavano, i killer, perché la mattanza non era completa. Lui era sopravvissuto. I suoi amici, fuori, erano morti. Ma a quegli animali non bastava, la mattanza non doveva lasciare nessuno vivo.
Maurizio Lupini rivive ancora una volta, oggi, a 36 anni da quell’agguato che rappresentò lo spartiacque nella lotta politica degli anni di piombo, la sensazione di essere un sopravvissuto. Poteva toccare a lui. Si è salvato. Ma il ricordo di quei momenti non lo lascia più solo. Maurizio non ci sarà, oggi, alla commemorazione di Acca Larentia. Troppe divisioni, dice. «Quell’epoca di sangue è finita», sospira.
Sì, ma come è finita? A 35 anni non c’è un colpevole. C’è una seconda inchiesta ancora aperta alla Procura di Roma. E c’è la certezza che molti, troppi, a sinistra, sappiano bene i nomi, i ruoli, la logistica, come e perché venne portata a compimento quella strage. Qual era la “logica” di quella strage.
C’era un doppio livello a sinistra. C’erano le squadre armate che uccidevano con fredda spietatezza. E c’era il movimentismo che applaudiva e inneggiava a quegli omicidi. Una separazione di ruoli solo formale. I due livelli erano necessari gli uni agli altri. Si supportavano. E agivano di conserva. Morirono così e per questo Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta. Morirono così e per questo molti altri a destra. Tanti sapevano nomi e cognomi. Ma nessuno, fino ad oggi, ha parlato.
La prima inchiesta non ha portato a nulla. Erano anni terribili. Nelle strade si urlava “Uccidere un fascista non è reato”. Ed era la legge non scritta. Ma fedelmente applicata.
Anni di indagini non hanno concluso nulla. La strage venne quasi subito rivendicata dai Nact, i Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale. Ma finì lì.
Dieci anni dopo una pentita, Livia Todini, fece nomi e cognomi. Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis vennero arrestati nell’88. Daniera Dolce riuscì a sfuggire alla cattura e riparò in Nicaragua. Scrocca si suicidò in carcere. Gli altri, compresa Daniela Dolce, verranno tutti assolti per insufficienza di prove.
Sempre in quell’anno dal covo delle Brigate Rosse di via Dogali a Milano spuntò la mitraglietta Skorpion dell’agguato. Sembrava finalmente la svolta. Fu l’ennesimo buco nell’acqua di una giustizia che ha fallito in maniera vergognosa.
Gli esami balistici decretarono: era la stessa mitraglietta utilizzata dalle Br per gli omicidi dell’economista Ezio Tarantelli, dell’ex-sindaco di Firenze, Lando Conti e del senatore dc Roberto Ruffili. Sembrava cosa fatta poter ripercorrere, a ritroso, in quali mani era passata l’arma. Ma non fu così. Solo due anni fa, nel maggio del 2012 il prefetto Carlo De Stefano rivelerà quali furono effettivamente gli accertamenti sull’arma. Che, acquistata dal cantane Jimmy Fontana in un’armeria di Saint Vincent venne poi, secondo lo stesso artista, successivamente ceduta assieme a una pistola “Star” a un funzionario di polizia, Antonio Cetroli, dirigente, all’epoca, proprio del commissariato Tuscolano, cioè della zona dove si trova Acca Larentia.
Jimmy Fontana rivelò che l’acquisto delle due armi venne formalizzato da Cetroli con un assegno di 200.000 lire.
Cetroli a sua volta, interrogato, ha sempre negato la vicenda. Così come l’ha negata Milva Bonvicini, la proprietaria dell’armeria del quartiere Prati – frequentata sia da Jimmy Fontana, sia dal funzionario di polizia Cetroli, sia dal brigatista Morucci – dove sarebbe avvenuta la vendita delle due armi.
Solo successivamente, in seguito agli omicidi Tarantelli, Conti e Ruffilli, i tre vennero sottoposti a nuovi interrogatori. Jummy Fontana precisò che la somma di 200.000 lire gli era stata consegnata in contanti e non con assegno. L’armiera Bonvicini ammise di aver consegnato a Jimmy Fontana un foglietto con i nomi e i recapiti telefonici di alcuni funzionari di polizia, fra cui Cetroli, che potevano essere interessati all’acquisto delle due armi. E Cetroli, riascoltato il 21 settembre 1988, ammise di essersi interessato all’acquisto ma, poi, di aver lasciato perdere perché si trattava di armi da guerra.
E la cosa finì lì.  Per Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta la giustizia poteva attendere.
Fu così anche per Stefano Recchioni. Fu scagionato il capitano dei carabinieri, Eduardo Sivori, da quell’omicidio: «È da escludere ogni possibile riferibilità dell’azione, pur adombrata dai giornali, al capitano Sivori». Racconterà, molti anni dopo, Francesco Cossiga a Luca Telese, autore del libro Cuori neri, della telefonata concitata ricevuta dal comandante dell’Arma. All’allora ministro dell’Interno, il Generale spiegò che Sivori era sotto shock, aveva paura di diventare un obiettivo. Venne spedito in vacanza nell’attesa che si calmassero le acque. Alcuni media costruirono sulla figura di Stefano una serie di falsità. E anche Stefano non ha mai avuto giustizia.

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