«Così sono fuggito dal lager della Corea del Nord. Vi prego, intervenite»

27 Gen 2014 20:55 - di Redazione

Un’esperienza devastante. Fatta di torture infinite e di atrocità inimmaginabili. Un incubo che lo perseguita e che non lo abbandona mai. Shin Dong-Hyuk oggi ha 31 anni e i modi educati degli asiatici. Ne aveva 23 di anni quando riuscì a fuggire, nel 2005, dal Camp 14, uno dei più famigerati gulag per detenuti politici in Corea del Nord. Shin Dong-Hyuk era nato in quel lager dove i suoi genitori erano stati trascinati dal regime di Pyongyang. Dunque per 23 anni ha vissuto in quell’inferno. Poi un giorno, non sa neanche lui come, è riuscito a eludere le guardie. E a scavalcare quel recinto di filo spinato elettrificato oltre il quale c’era la tanto agognata libertà.
Oggi è un ragazzo compassato ma scosso da quello che ha vissuto. Cravatta gialla, camicia a quadretti ed un abito grigio, Shin racconta quella che è statala sua vita per i primi 23 anni. Dolore e rabbia filtrano dalla sua voce per l’incapacità di istituzioni, come l’Onu e il suo Human Rights Council, di risolvere il drammatico stato dei diritti umani in Corea del Nord.
«Mi chiedete se eravamo trattati come animali? – dice rivolto ai giornalisti che lo incalzano di domande – Io dico peggio perché almeno i topi possono girare liberi e decidere cosa mangiare. Ci era vietato tutto, eravamo sottoposti a ogni tortura e la morte poteva essere un sollievo».
Shin è forse l’unico, nato dentro un gulag, che ufficialmente sia riuscito nell’impresa di fuggire.
«La gente, le prime volte che mi capitava di raccontare, aveva difficoltà a capire le atrocità cui eravamo sottoposti», dice in un incontro al club della stampa estera di Tokyo, nell’ambito di una visita in Giappone per incontrare altri attivisti, tra cui le famiglie di cittadini giapponesi rapiti da agenti del Nord, così come gruppi per i diritti umani.
«Sono nato in un campo di prigionieri politici e il mio mondo era fatto di guardie e prigionieri. L’ultima cosa che ho visto prima di scappare non era diversa da quanto visto in una vita intera», racconta Shin, figlio di una coppia detenuta, autorizzata a sposarsi come ricompensa per la buona condotta mostrata.
«Non so se mio padre o mio cugino siano ancora lì e vivi. Scappare dalla fame e dalle vessazioni voleva dire superare la recinzione elettrica e tentare la fuga. Sapevo che le guardie avevano l’ordine di sparare, ma l’idea di provare un pasto diverso e migliore non avrebbe reso la fuga inutile, anche se ucciso».
Nel suo racconto, Shin, autore di un libro sull’atroce esperienza vissuta (“Escape from Camp 14“) e impegnato a promuovere un documentario sulla vita da prigioniero politico, descrive le vessazioni, le torture subite (le sue braccia sono terribilmente storte, ma ci sono altri evidenti segni di quanto subito) e dice di aver assistito all’uccisione di sua madre e suo fratello.
Il 17 marzo sarà a Ginevra per lo Human Rights Council: anche se è molto tardi e se molte opportunità sono sfumate, «credo che la Commissione e i Paesi coinvolti dovrebbero prendere posizioni forti. Non so quali, ma l’Onu è una grande organizzazione e dovrebbe fare qualcosa per risolvere questo problema».
Shin teme che la situazione in Corea del Nord sia peggiorata sotto il regime di Kim Jong-un: «Dalle foto satellitari capisco che i campi di prigionia sono più grandi e ci sono più alloggi da quando è al potere». E sulla caduta dell’ex-numero due e zio del leader, Jang Song-thaek, insieme a tutta la sua famiglia e ai suoi uomini, non è affatto sorpreso: «Secondo le regole della Corea del Nord, se non piaci al dittatore, la tua famiglia e i tuoi amici finiscono nei campi. Con questo sistema, solo una persona ha il potere. Quindi, non sono affatto sorpreso che Kim abbia fatto questo a suo zio».
Con tutto ciò, pur se pessimista, Shin esprime l’auspicio di un cambiamento: «Kim usa la paura per avere il controllo, uno strumento molto efficace. Alcuni ipotizzano che le due Coree potrebbero riunirsi in cinque anni: gli esperti lo hanno detto alla morte del nonno, Kim Il-sung, ma anche allora nulla è successo». La speranza è che ora l’Onu muova le sue carte. Può farlo. Tutto sta a capire se vuole farlo.

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