Alfano ad Herat: «Oggi l’Afghanistan è più sicuro». Ma Bashir denuncia: «I talebani mi vogliono ammazzare…»
Anno cruciale il 2014 per l’Afghanistan. Il 5 aprile le elezioni presidenziali designeranno l’erede di Hamid Karzai dopo due mandati consecutivi (il terzo non è consentito). Il 31 dicembre segnerà poi la fine della missione Isaf dopo 13 anni e oltre 3.000 morti tra i militari di 49 Paesi, di cui ben 53 italiani. E non è detto che oggi l’Afghanistan sia un Paese più sicuro di quello che era prima dell’intervento, se è vero che nelle ultime ore è stato sventato un ennesimo attacco suicida portato però da una bambina di appena dieci anni, arrestata. «L’Italia non abbandonerà questo Paese», ha però assicurato il vicepremier e ministro dell’Interno Angelino Alfano, giunto ad Herat per una visita al contingente nazionale e poi volato a Kabul per un colloquio con Karzai e con il comandante di Isaf, generale Joseph Dunford. I militari italiani in Afghanistan sono attualmente circa 2.200: 200 a Kabul, sede del comando generale di Isaf, ed il grosso nella regione Ovest comandata dal generale Michele Pellegrino. Dal gennaio 2013 a oggi c’è stato un taglio di mille unità. Nella base di Herat sono attualmente dispiegati circa 1.400 italiani, mentre 600 si trovano nella base avanzata di Shindand, zona calda ancora ad alto rischio insorgenti, come dimostra l’attacco che domenica ha coinvolto un elicottero italiano, colpito, senza conseguenze, con armi da fuoco. Ma a metà febbraio i militari tricolori lasceranno Shindand proseguendo nel processo che affida progressivamente alle forze di sicurezza afgane (giunte a 350mila effettivi) la responsabilità del controllo dell’intero territorio nazionale. I rientri in Italia di uomini e mezzi proseguiranno fino ad arrivare, a fine dicembre di quest’anno, a quota 800-900 militari. Dal primo gennaio 2015 Isaf terminerà per lasciare spazio ad una nuova missione, molto più contenuta nei numeri e con compiti di addestramento e non di combattimento, che si chiamerà Resolute Support. Non ancora deciso nei numeri l’impegno dell’Italia, che comunque dovrebbe attestarsi intorno alle 7-800 unità da mantenere sempre ad Herat. «Non vi lasceremo soli – ha detto Alfano al governatore di Herat, che ha ringraziato gli italiani per il sostegno dato alla provincia – e la vostra gratitudine ci fa capire che i nostri 53 morti non sono caduti invano: anche grazie a quel sangue versato oggi l’Afghanistan è un Paese più sicuro e più libero. Significa che quegli italiani sono morti per un ideale grandissimo». Di parere diverso gli alti vertici militari britannici, che in Afghanistan hanno visto morire circa 450 soldati: secondo loro, infatti, non appena le truppe dell’alleanza avranno lasciato il Paese, questo ritornerà preda del talebani, che comunque non hanno mai cessato la loro azione. Il ministro Alfano ha poi parlato ai militari schierati a Camp Arena. «Sono qui – ha detto – per portarvi l’affetto degli italiani: con i vostri sacrifici tenete alta la bandiera tricolore. La libertà non è scontata, va conquistata anche con l’aiuto di popoli amici, come è successo a noi alcuni decenni fa e non bisogna dimenticare che libertà e democrazia qui significano una maggiore sicurezza nel mondo». Ma l’effetto gli è stato totalmente rovinato dalla realtà sul campo, ben diversa da quella immaginata a Roma: Maria Bashir, procuratrice capo della provincia di Herat, unica donna in un posto di rilievo nelle istituzioni afgane, ha chiesto in un drammatico appello l’aiuto dell’Italia: «Sono continuamente minacciata di morte dagli islamisti, l’ultimo episodio è avvenuto appena ieri – ha detto al vicepremier italiano, incontrato a Camp Arena – e non ci sono fondi sufficienti per la scorta che mi protegge». Alfano si è detto pronto ad assicurare il sostegno dell’Italia al magistrato. La storia di Maria Bashir, 43 anni, è singolare e fa capire quanto sia ancora lunga per l’Afganistan la strada da percorrere nella direzione di una effettiva parità tra in sessi, nonostante essa sia sancita dalla Costituzione. Giovanissima procuratrice già nell’Afghanistan pre-talebani, la donna viene ovviamente mandata a casa da questi ultimi. Con la missione Isaf e l’avvio del processo di ricostruzione delle istituzioni del Paese, Bashir riprende il suo posto fino a diventare capo della Procura di Herat. Decisione che non le ha certo attirato le simpatie della parte della popolazione più legata all’islamismo tradizionale fedele alla sharia e che ancora ritiene punibili con la galera le donne che hanno rapporti fuori dal matrimonio. Proprio la tipologia di persone che lei si trova a proteggere nel suo lavoro. «Come donna – ha ancora spiegato ad Alfano – sono molto preoccupata per la situazione del Paese, non so se il 5 aprile avremo elezioni trasparenti e regolari e voi dovete ancora starci vicini. In Afghanistan non ci sono solo corrotti, ma c’è anche una nuova generazione che ama la patria e che ha bisogno di aiuto per proseguire nella battaglia per i diritti». Quanto alle minacce, la procuratrice si è detta “determinata ad andare avanti”. Anche a costo di sacrifici personali e familiari, con una vita da vivere sotto scorta e tre figli mandati a studiare in Europa: l’unica femmina, 18 anni, in Italia, a Firenze. E anche lei ha detto quello che tutti pensano ma che nessuno ha il coraggio di dire: «Se la comunità internazionale abbandona l’Afghanistan – ha ammonito – c’è il rischio che si possa tornare al tempo dei talebani».
E anche dalle prossime elezioni politiche c’è poco da aspettarsi di buono: tra i candidati c’è anche Qayyum Karzai, fratello dell’attuale presidente, segno che il potere vuole perpetuarsi per via familiare, come peraltro capita in molti Paesi asiatici e mediorientali. Il grande punto interrogativo è sempre quello della sicurezza. La situazione in molte aree del Paese è ancora precaria e gli attacchi di chi ha interesse ad ostacolare il cammino del Paese verso la stabilità continuano a fare morti tra le forze afghane e tra quelle Isaf. A Kabul e non solo si susseguono gli attentati suicidi, l’ultimo pochi giorni fa con tre vittime Isaf. Che il Paese non sia sicuro lo dimostrano le misure di sicurezza prese per il vicepremier italiano: trasferimento dall’aeroporto al quartier generale Isaf a bordo degli elicotteri americani Black Hawk con mitraglieri a sorvegliare movimenti sospetti e caschi e giubbotti antiproiettile per tutta la delegazione. Poi verso il blindatissimo palazzo di Karzai a bordo di fuoristrada protetti con jammer, dispositivi per neutralizzare gli impulsi di telecomandi per eventuali ordigni piazzati lungo la strada. E sul cielo di Kabul tre dirigibili Isaf che monitorano l’intero territorio della Capitale.