Il cervello “democratico” all’ammasso. E se a dirlo è persino Cacciari…

7 Dic 2013 16:50 - di Silvano Moffa

Il rischio è reale. Le primarie del Pd possono nuocere alla sinistra per l’eccesso di enfasi che le circonda. Da qualche giorno, mano a mano che la data dell’8 dicembre si avvicinava, la preoccupazione in  casa democratica era di  non raggiungere una quota decente di elettori, di attestarsi sotto la soglia dei tre milioni, ossia al disotto della partecipazione registrata nelle precedenti consultazioni, quando erano candidati Veltroni e Bersani. Poi, il coro unanime dei protagonisti , da Renzi a Civati passando per Cuperlo, si è levato ad alimentare un gioco al ribasso: una soglia minima da cui far dipendere il crisma della legittimazione per chi avesse vinto. Fiutata l’aria, evidentemente, nessuno se l’è  sentita di scommettere più di tanto su numeri che rimarranno incerti fino all’ultimo, a dispetto dei sondaggi che danno, comunque, per certa la vittoria di Renzi.  Anche qui, con qualche riserva di giudizio. Se il sindaco di Firenze non supererà almeno il 50% dei voti, dopo essere stato accreditato di percentuali abbondantemente al di sopra del 60%, la sua sarà una  vittoria monca, quasi una sconfitta. Lo stesso Renzi crediamo ne sia consapevole. Comunque sia, basterà attendere la notte tra domenica e lunedì  per  analizzare l’esito del voto, e della partecipazione, in modo più chiaro.  Certo è che le primarie , come strumento per ridare forza alla politica, continuano a rappresentare una incognita e a destare non poche perplessità. Secondo il filosofo Massimo Cacciari, farle per eleggere il segretario del partito aprendole a  tutti è “pura follia”. L’ex sindaco di Venezia non ha dubbi  e sentenzia: nel Pd “ormai il cervello è all’ammasso, sono gli iscritti attraverso i congressi a dover decidere”. Come dargli torto ? Non si tratta di voler difendere ad ogni costo il passato, né di voler  far rivivere forme della politica che hanno fatto il loro tempo. Sappiamo quanto vasta e profonda sia ormai la crisi della politica e dei partiti. Ieri il Censis, fotografando l’Italia nel tempo della Crisi, ha documentato quel che tutti ormai sanno: gli italiani non amano i politici e i loro discorsi. Fra i nostri connazionali, solo uno su quattro  dichiara di non interessarsene proprio mai; la percentuale sale a 4 su 10 se nel computo  si includono quelli che dicono di interessarsi di politica non più di un paio di volte al mese. Insomma, primarie o non primarie, il 56% degli italiani non si sente minimamente attratto dalla politica e non ha nessuna voglia di impegnarsi anche nelle cose minime che potrebbero riguardarlo direttamente, come la firma di una petizione o di un referendum.  Preoccupati per il loro destino e per il futuro dei loro figli in epoca di incertezze,  delusioni, di impoverimento e di progressiva perdita del senso collettivo, i nostri connazionali si rifugiano in una rassegnata indolenza o scappano via, soprattutto chi è  giovane, alla ricerca di un luogo in cui coltivare  qualche speranza di vita dignitosa oppure si chiudono in se stessi, in preda ad  un esasperante egoismo . In questa  indolenza complessiva parlar loro di partiti e di politica  è una bestemmia. Ormai c’è il rigetto.  Per rianimarli dallo scoramento ci vorrebbe ben altro che lo stucchevole rincorrersi di tre giovanotti nei gazebo allestiti nelle piazze. Ci vorrebbe qualcosa di forte, di comprensibile, di concreto.  Ma anche di lineare e pulito. Una volta, appunto, erano i partiti il collante più diretto degli umori collettivi, solo che quegli umori venivano incanalati in un circuito ben definito di regole , di progetti e di programmi. Dove gli iscritti, come ricorda Cacciari, venivano periodicamente chiamati a pronunciarsi nei congressi  e lì si decidevano linea politica e leadership , sulla base di un confronto fra  tesi, idee, culture,  storie individuali e collettive. Scomparsi i partiti, o per dir meglio soppiantata la politica dalla sua  personalizzazione, annichilita dal messaggio televisivo, scompaginata dalle nuove tecnologie della comunicazione, quell’azione di collante, con i suoi pregi e i suoi difetti, si è rarefatta e annullata. Gli scandali, la corruzione, la selezione senza merito delle classi dirigenti, le leggi elettorali alla Porcellum , oltre alla ottusa autoreferenzialità delle oligarchie imperanti e alla dislocazione dei poteri effettivi in altri luoghi, hanno ridotto in brandelli quel che esisteva, senza   che ci fosse qualcuno in grado di interrogarsi sul futuro e di mettere in campo una idea nuova di politica e una forma-partito moderna e più rispondente alle sopravvenute esigenze. Chi pensa che le primarie, che poggiano su  una confusa e indistinta base partecipativa ( al di là del numero dei votanti), possano rappresentare la panacea,  prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. Nelle democrazie moderne oltre ai partiti e ai movimenti politici non è dato ancora scorgere qualcosa di  diverso,qualcosa  che abbia più forza attrattiva, che desti interesse e alimenti entusiasmo,  che possa utilmente  costruire consenso ed enucleare un  ceto politico con ambizioni e ruolo di governo. Semmai, si dovrebbe discutere su come organizzarli,  quale status attribuirgli, come allargarne la base partecipativa nei momenti delle scelte e delle decisioni,  contemperando la funzione di chi è militante con quella di chi vuole essere  semplice  simpatizzante; si dovrebbero fissare regole e codici di comportamento, con tanto di sanzione per chi trasgredisce, come pure sarebbe opportuno  adottare un limite di mandato per chi ha compiti di rappresentanza nelle istituzioni, per favorire il ricambio. Insomma, si potrebbero usare mezzi e strumenti nuovi e  inedite forme di coinvolgimento. Finora, al di là dell’idea delle primarie , buona forse per indicare  il candidato di una coalizione come premier, ma poco adatta ad eleggere un segretario di partito, non si è andati.” Il Pd ce la sta mettendo tutta per non vincere nemmeno stavolta”, profetizza Cacciari. Che abbia ragione?  Enfasi delle primarie a parte, ne riparleremo da lunedì.

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