La rabbia di Domenico Quirico, libero dopo cinque mesi: «La rivoluzione mi ha tradito…»

9 Set 2013 11:31 - di Priscilla Del Ninno

«La rivoluzione mi ha tradito». Queste le prime parole del giornalista Domenico Quirico dopo essersi lasciato alle spalle l’inferno siriano. Arrivato a Ciampino a bordo di un aereo di Stato poco dopo la  mezzanotte, insieme allo studioso belga Pier Piccinin, rapito insieme a lui 5 mesi fa, è apparso provato ma sereno: il volto dell’inviato della Stampa dopo la lunga prigionia incarna tutto il dramma del conflitto su cui incombe ormai anche la possibilità di un’azione militare statunitense, ventilata nei giorni scorsi all’indomani delle denunce sull’uso di armi chimiche attribuito al regime del presidente Bashar al-Assad. Giubbotto grigio, volto smagrito, visibilmente stanco, l’inviato di guerra è apparso in buone condizioni di salute, nonostante quel suo ormai celebre «Non sono stato trattato bene. Ho avuto paura», abbia lasciato intuire il dramma di una detenzione molto dura, su cui fino all’ultimo, e nonostante la speranza mai abbandonata di una felice risoluzione dell’intricato caso, abbia gravato il dubbio di un esito fatale. Il silenzio, durato a lungo malgrado i contatti subito attivati dalla Farnesina e dai servizi d’intelligence, aveva fatto temere il peggio; ma la sua famiglia, il suo giornale, e lo stesso governo italiano, non hanno mai abbandonato le speranze. L’odissea di Quirico, professionista che vanta grande esperienza di zone di guerra – dove ha agito sul fronte dell’informazione internazionale, tanto da essere già stato vittima vittima di un sequestro lampo nel 2011 in Libia con altri tre colleghi italiani – era cominciata ad aprile di quest’anno, mentre l’inviato della Stampa cercava di raggiungere Homs, città martire della rivolta anti-Assad, provenendo dalla frontiera libanese per la sua quarta missione di testimone dell’efferato conflitto civile siriano. La moglie aveva potuto sentirne la voce, da quella sorta di vuoto pneumatico in cui il giornalista era stato risucchiato («Sono vissuto per cinque mesi come su Marte» ha confermato lo stesso Quirico appena messo piede nello scalo romano), solo due mesi dopo a giugno: poi più niente. Il silenzio, durato a lungo malgrado i contatti subito attivati dalla Farnesina e dai servizi d’intelligence, aveva fatto temere il peggio. Ma nelle ultime settimane il ministro degli Esteri Emma Bonino si era mostrata cautamente ottimista, anche rispetto al caso parallelo del gesuita padre Paolo Dall’Oglio, scomparso a sua volta in Siria a luglio. «Resto non soltanto determinata, ma anche fiduciosa – aveva ribadito ancora a fine agosto – perché da quelle parti le cattive notizie si sanno subito». Un atteggiamento suffragato anche da quanto riferito al Copasir nei giorni precedenti dal direttore del Dis Giampiero Massolo, secondo la cui ricostruzione il giornalista sarebbe finito negli ultimi tempi in mano ad un gruppo della criminalità ordinaria, agganciato poi da canali di contatto utili all’avvio di una trattativa concreta. Trattative che, a quanto pare, si sarebbero giovate anche dei buoni rapporti stabiliti dagli apparati diplomatici e d’intelligence italiani con settori dell’insorgenza siriana, e avrebbero consentito alla fine di far prevalere le ragioni umanitarie. Tanto più che Quirico, almeno da un certo punto in avanti, non sarebbe stato più sotto il controllo di frange jihadiste dei ribelli. Un quadro complesso e articolato – non ci sono, comunque, notizie sul pagamento di un riscatto – che, come ribadito dallo stesso ministro Bonino, ci sarà tempo di ricostruire, a cominciare proprio da oggi: già da stamane l’inviato sarà ascoltato in Procura, dopo l’abbraccio della moglie e delle due figlie che lo stanno raggiungendo nella capitale.

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