La politica tra drammatizzazione e responsabilità. Ora si trovi il bandolo della matassa

3 Ago 2013 15:25 - di Silvano Moffa

I termini più usati nel commentare la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti di Silvio Berlusconi e le conseguenze che ne discendono sono drammatizzazione e responsabilità. Il primo indica il clima che si sta vivendo in casa Pdl. Tra scoramento, rabbia, indignazione , resi palpabili nella comunicazione resa alle televisioni dal Cavaliere, prende corpo una reazione a catena, la spinta a far saltare equilibri di governo, mai così precari come in queste ore, puntando, appunto, sulla drammatizzazione. Gli ingredienti ci sono tutti. C’è , innanzitutto, il dramma umano e politico dell’uomo-imprenditore che seppe, come nessun altro avrebbe potuto fare al suo posto, bloccare la formidabile macchina da guerra di Occhetto, destinata a sicura vittoria, nell’ormai  lontano 1994. Impresa ripetuta nelle recenti elezioni politiche, dove, pur lasciando per strada sei milioni di voti, ha impedito la vittoria del Pd di Bersani e condizionato la nascita del governo delle cosiddette “larghe  intese ” di Enrico Letta. Meriti  indiscutibili. Che fanno strame di quel misero luogo comune, predicato a gran voce  a sinistra, ma sussurrato non senza ipocrisia anche a destra, che lo raffigura coma emblema e simbolo di impoliticità. Dove per impoliticità si intende la lontananza assoluta dai canoni classici della politica. Mentre poco rileva, in siffatto giudizio, il fatto che quei canoni e quelle categorie della politica sono stati spazzati via dalla pervasiva invadenza di internet e delle nuove tecnologie della comunicazione, entrambe combinate al fattore personalizzazione, che ha preso piede nei partiti politici trasformandone immagine, sostanza e funzione.

Il dramma può provocare , peraltro, una inconscia teatralità, a prescindere dalle sofferenze che procura  in chi ne porta il peso e ne misura gli effetti. Nel caso di Berlusconi, è fuori dubbio che ci sia stato e ci sia ancora un accanimento giudiziario da parte di alcune procure che, almeno  per  il numero di procedimenti a suo carico, non ha precedenti. Il che dilata e rende manifesta la crisi della giustizia di cui soffre il nostro Paese, da quando i giudici hanno smesso i panni della terzietà , trasformandosi in vestali del moralismo piuttosto che essere, come la costituzione prevede, tutori del diritto , espressione di un Ordine e giammai di un Potere. Tant’è . Se un rimbrotto va fatto al Cavaliere riguarda le occasioni perdute, negli anni (non pochi) di governo in cui le riforme che andavano fatte in questo campo non sono state portate a termine. Si dirà – e continueremo a sentirlo dire dai suoi sodali – che glielo hanno impedito gli alleati, i quali,  di volta in volta, hanno eretto un muro contro quelle sacrosante riforme. Questo è vero solo in parte. All’inizio della predente legislatura, per esempio, Gaetano Pecorella presentò una proposta di legge ordinaria sulla riforma del Csm. Essa  aveva il pregio di eliminare, d’un solo colpo, le correnti all’interno dell’organismo di autogoverno dei giudici, depoliticizzando un sistema corrosivo che non poche iatture  ha procurato nell’esercizio della giustizia nel nostro Paese . Anche se non mi piacciono le autocitazioni, torna utile ricordare, inoltre,  la proposta di legge costituzionale presentata dal sottoscritto, firmata  da una cinquantina di  deputati, inerente il ripristino della immunità parlamentare in analogia con quanto previsto dal Parlamento europeo e praticato  in ogni altro sistema democratico degno di questo nome. Una tale immunità avrebbe riequilibrato il rapporto tra politica e giustizia, senza scalfire la funzione di quest’ultima e senza intaccare l’indipendenza e l’autonomia della prima. Per chi la pensasse diversamente, consiglio di andare a leggere gli interventi di Togliatti, De Gasperi, La Malfa,  Mortati nell’Assemblea Costituente sull’articolo 68 che introdusse, appunto, il sistema di guarentigie per deputati e senatori. Quel sistema fu inopinatamente cancellato, dopo Tangentopoli, quando, invece, sarebbe stato sufficiente eliminarne l’abuso con opportuni regolamenti. Fatto sta che entrambe le proposte, su cui era possibile allargare l’adesione oltre i confini dello stesso centrodestra, sono state accantonate per dar corso ad interventi di dettaglio, alle  cosiddette “leggi ad personam”, dal discutibile profilo costituzionale e di scarso valore pratico, anche per chi ne avrebbe dovuto beneficiare come il Cavaliere. Ammettere tali errori, incongruenze politiche e tecnico-giuridiche non sarebbe sbagliato. Al contrario segnerebbe un punto a favore di chi vuole imporre, sia pure tardivamente, il proprio punto di vista riformatore, sulla scorta della drammatizzazione di una sentenza definitiva di condanna.

L’altro termine, usato e abusato in queste ore, è responsabilità. Certo, di responsabilità individuali e collettive avvertiamo  tutti un gran bisogno. Sorge, però,  il sospetto che, a sinistra, venga invocata per esigenze tattiche ed interne; per questioni di posizionamento elettorale e di complesso equilibrio nelle dinamiche di potere  che rischiano di far implodere il Pd. Sull’altro versante, invece, il termine viene vissuto come una sorta di beffa, di coazione a perdere. Sulla testa del Capo, come dimostra l’esito della vicenda giudiziaria. Ma anche di un partito politico che ha smesso da tempo di sentirsi tale e , ora, fatica  a trovare il bandolo della matassa.

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