Tante chiacchiere al posto della riforma. E i nostri porti affondano nell’inefficienza

30 Lug 2013 14:14 - di Silvano Moffa

Sono venti anni che attendiamo la riforma dei porti.  E chissà quanto ancora dovremo aspettare, se non si troverà il modo di disincagliare il disegno di legge all’esame del Senato. Qui si va avanti con le audizioni. Un rito che è durato per tutta la passata legislatura e non ha portato a nulla. Anche se  non intravediamo uno spiraglio di luce, si spera che almeno questa volta dal Parlamento esca qualcosa di buono. Per la verità i segnali sono tutt’altro che confortanti. Eppure di un riordino del sistema portuale italiano  si avverte una urgenza assoluta. La legge sui porti, la n.84 del ’94, era stata definita con l’intento di privatizzare le banchine e liberalizzare le attività portuali. La nuova normativa dovrebbe proseguire su questa strada, eliminando gli ostacoli che hanno reso impervio quel percorso e bloccato la crescita produttiva del nostro sistema portuale.

Un sistema che sconta arretratezze infrastrutturali, confusione gestionale, sovrapposizione di competenze e mancanza di una governance chiara che ne indirizzi il profilo industriale. Un esperto del settore, Sergio Bologna, qualche tempo fa, ci propose la diagnosi esatta dei cambiamenti che hanno interessato l’economia marittima in epoca post-fordista e di incremento del traffico delle merci da est ad ovest, da nord a sud e viceversa. Nel saggio “Le multinazionali del mare”, Bologna spiega come il traffico dei container sia diventato il termometro della globalizzazione e della internazionalizzazione dei flussi logistici. In appena  diciassette anni, dal 1990 al 2007, abbiamo assistito a una autentica rivoluzione. Il volume dei contenitori movimentati nei porti e’ passato da 25 a 125 milioni di Teu (Twenty equivalent unit, il container da venti piedi che rappresenta l’unità di misura del traffico); si è realizzata la più grande concentrazione proprietaria di dimensioni radicali:  15 compagnie controllano il 66 per cento della flotta full  container mondiale, pari al 77 % della capacità offerta, considerando solo le navi con capacità superiore a mille Teu . Oggi le navi portaconteiner trasportano 18 mila TEU e quelle di ultima generazione arrivano ad una stazza di 27 mila. Va da se’ che questi colossi del mare richiedono infrastrutture adeguate, banchine ampie e fondali profondi. Tutto quel che noi fatichiamo a realizzare. Dappertutto. Anche in quei porti  italiani che vanno per la maggiore e dove stiamo investendo non poche risorse. Da noi mancano spazi adeguati per la movimentazione logistica e  soffriamo maledettamente della privazione di reti di collegamento con i mercato retro portuale da servire.

Le aree portuali delle nostre città, daTrieste a Taranto, da Venezia a Civitavecchia, andrebbero rigenerate. Come si e’ fatto ad Anversa e Barcellona, per esempio. Per carità, qualche progetto si è anche visto in giro, qualche cantiere si è aperto, ma si tratta di una goccia nel mare. Poco, troppo poco per essere competitivi. Nel frattempo , si stanno ultimando porti imponenti nel bacino mediterraneo, sulla costa nord africana. Da  Rotterdam, gli olandesi, che nella gestione portuale  sono maestri , hanno anticipato tutti calando a Suez per tessere accordi, formulare contratti di scambio e aprirsi nuovi spazi commerciali. Usando  tecnologie all’avanguardia e il buon senso di chi sa perfettamente che per vincere la concorrenza bisogna attrezzarsi e muoversi in tempo, non si sono fatti cogliere impreparati dalla invasione cinese. Da noi, invece, tutto va a rilento. Le merci, quando transitano nei nostri porti, vi restano in media diciassette giorni. Controlli esasperanti, duplicazione di funzioni e scarsa collaborazione tra  vari organismi  rendono assurdi i tempi di sdoganamento delle merci. Le Autorità portuali – troppe nel numero e dotate di scarsi poteri – faticano a interpretare la loro missione. Altrove, in Europa, rappresentano il massimo organo di governo del porto; le dogane dipendono da loro;  guidano i traffici esistenti e li implementano impostando  i bilanci, elaborando strategie , definendo piani di investimento. Da noi, in Italia, se volessero farlo, si troverebbero di fronte ostacoli insuperabili, poteri autoreferenziali pronti ad impedirlo. Paolo Ugge’, presidente di Fai Confacommercio ed ex sottosegretario ai Trasporti, ha recentemente suggerito, nell’ attesa della riforma, di non perdere tempo e attrezzare almeno lo sportello unico doganale, come si sta facendo a Civitavecchia in via sperimentale. Da tempo si discute della necessità, non solo per ovvie ragioni di risparmio, di introdurre una sorta di gerarchizzazione dei porti. Per grandezza, posizione geografica e accesso , non ci vuole molto a capire che abbiamo porti in Italia molto differenti l’uno dall’altro. Ma li trattiamo come se fossero tutti uguali. In più abbiamo la pretesa  di incentivare gli investimenti dei privati imponendo a questi ultimi oneri che non esistono in nessuna altra parte del mondo. In  quasi tutti gli scali marittimi mondiali, ai terminalisti   vengono chiesti principalmente il pagamento dell’affitto delle aree portuali, l’acquisto delle gru, degli altri mezzi e dei sistemi di gestione informatizzata del terminal. Non spetta loro la costruzione delle banchine, che sono realizzate dalla parte pubblica, tranne nei casi in cui il terminal portuale  e’ una appendice di un complesso industriale, come accade con attività che esigono un accesso dedicato al mare. Il punto e’ molto  dibattuto. Ma non saranno certo le chiacchiere infinite a offrire ai nostri porti un futuro industriale.

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