Comunali: lo smottamento partecipativo manda in pensione la stagione dei sindaci

27 Mag 2013 19:00 - di Silvano Moffa

Sono passati venti anni dalla riforma che introdusse l’elezione diretta dei Sindaci. Essa scandì un cambiamento profondo nella vita delle nostre città. Dopo tangentopoli,  rappresentò un segnale di riscatto della politica. Fino a quel momento i sindaci venivano eletti  dai consigli comunali  in base alle indicazioni dei partiti. Erano le segreterie dei partiti, vere e proprie consorterie capaci di orientare il voto e le preferenze, a determinare le scelte, il più delle volte frutto di alchimie e di equilibri fissati fuori dalle aule consiliari. La durata dei  Sindaci e delle Giunte era legata agli umori/interessi dei partiti. Di questo stato delle cose i Comuni soffrivano non poco. La crisi morale che investiva, allora come ora, il ceto politico faceva il resto.

L’introduzione dell’elezione diretta segnò una cesura con quel sistema. Alimentò nuove speranze nei territori. Esaltò la spinta competitiva tra aree diverse. Enucleò una classe dirigente a livello amministrativo vogliosa di cambiamenti e di nuove sfide. La sete di innovazione si irradiò un po’ dappertutto  riverberando i suoi effetti sullo stesso tessuto organizzativo degli enti locali. Fu quella l’epoca delle prime riforme introdotte negli apparati locali: dalla trasformazione dello status giuridico dei segretari comunali alla più pregnante responsabilizzazione dei dirigenti collegata al trasferimento verso di loro di una significativa quota di potere effettivo. Sul piano della fiscalità locale, a fronte di una progressiva riduzione delle risorse derivate dallo Stato, si fece spazio  il concetto di  “autonomia”. Il principio di “distinzione” tra governo e gestione entrò nella prassi  amministrativa segnando lo spartiacque con le forme di commistione che fino ad allora avevano inquinato atti e procedure. Una opacità che spesso celava il malaffare del clientelismo e della corruttela.

Fu anche l’epoca del “partito dei Sindaci”. Non un vero partito, per la verità. Ma una sorta di movimento trasversale che vedeva i primi cittadini, in forza del mandato popolare diretto, assumere  ruolo e peso anche in termini politici. L’Anci – l’associazione dei Comuni all’epoca guidata da Enzo Bianco, sindaco di Catania –  ne era, in qualche modo, mallevadrice ed espressione più aperta. Crescendo in autorevolezza, l’associazione riuscì persino a farsi riconoscere un ruolo istituzionale. Sulle ali di un federalismo municipale mai compiutamente realizzato, nacque la Conferenza Stato-Città. Conferenza poi  soppiantata dalla Conferenza Stato-Regioni. La Riforma del Titolo V ha  fatto il resto. Certo è che quella stagione fu animata da una grande ondata di consenso popolare  che si tradusse in una non irrilevante partecipazione al voto.

Incise a tal punto quella Riforma nel corpo vivo delle comunità locali che, ancor oggi, c’è chi chiede di replicarla ai livelli alti del sistema istituzionale. Opzione non priva di senso, non c’è dubbio. Ma opzione che rischia di essere indebolita dalla fortissima contrazione della partecipazione dei cittadini al voto in questa tornata di elezioni comunali. La si può girare come si vuole, ma è questo il dato che impressiona di più. Nella imponente disaffezione che ormai attraversa l’Italia dal Nord al Sud, con punte clamorose come nella Capitale, giustamente si rintracciano gli elementi di un malessere diffuso. Le  popolazioni, strette tra una crisi economico-sociale senza precedenti e la povertà della offerta politica, non sanno più a che santo votarsi. Mancano di riferimenti certi che possano assicurare l’uscita dalla crisi. Nella disillusione avanza la desertificazione delle urne. E questa si fa protesta reale e preoccupante perché silenziosa, rassegnata, ineluttabile.

Finora – ecco il punto – questo stato di disagio collettivo non aveva toccato così da vicino i livelli locali. Anzi, sembrava (e certo si sperava) che almeno lì le cose andassero diversamente. Che la cura del Comune in cui si vive,  crescono figli e nipoti, si lavora e si studia, si socializza e si tifa per  i colori della squadra di casa producesse ancora un effetto coinvolgente. Che la sete di “futuro” per il locus in cui si cementa una comunità mantenesse peso e  valore. E non si disperdesse nelle sabbie mobili di questa terribile decadenza civica che rischia di affogare tutto e tutti.

Invece, lo smottamento partecipativo ha assunto le dimensioni di un terremoto senza precedenti.  Così, anche quella formidabile stagione dei Sindaci sembra volgere al tramonto. Comunque vada a finire nei ballottaggi, resta sullo sfondo una lesione profonda. Rimarginarla non sarà facile. Speriamo almeno che la lezione serva. Non è sbagliata la riforma del 1993. E’ la caduta di senso del bene comune incarnato da amministratori approssimativi, sovente reclutati con criteri discutibili, che la sta vanificando. Basta gettare uno sguardo in qualche consiglio comunale. Una volta c’erano il medico di famiglia, professionisti rispettati, uomini del ceto più avanzato della società che volevano fare e facevano politica. Persone che ci credevano. Possiamo, in tutta onestà, dire altrettanto oggi?

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