La notte oscura del Kali Yuga secondo Julius Evola

16 Dic 2012 0:04 - di Adriano Scianca

«È la presente l’epoca ultima, la notte oscura del Kali Yuga. All’avvicinarsi della catastrofe finale e di fronte all’accelerarsi del ritmo della crisi del mondo moderno, quali, a Suo parere, dovrebbero essere le direttive essenziali di un Ordine di credenti che intenda mantenere viva l’idea tradizionale e trasmetterla a coloro che vedranno la fine del presente ciclo?». Ti chiami Julius Evola, è il 1972 e sei immobilizzato su una sedia a rotelle senza la possibilità di attuare una rapida fuga e/o distribuire calci nel sedere: il minimo che ti possa capitare è di sentirti porre in tutta serietà anche domande come questa. Un vero supplizio, le visite degli schizoidi che – in mezzo a tantissime personalità dalla mente vivida e dal carattere esemplare – finivano per operare uno stalking continuo nei confronti del pensatore tradizionalista. Come quelli che si presentarono raccontando al maestro delle loro serate di lettura: il lunedì “Gli uomini e le rovine”, il mercoledì “Cavalcare la tigre” e il venerdì “Rivolta contro il mondo moderno”. Tagliente la replica evoliana: «E che giorno riservate a “Metafisica del sesso”?». Come a dire: va bene la Tradizione, ma trovatevi anche una donna. All’apocalittico intervistatore di cui sopra, invece, Evola rispondeva: «Lasciamo da parte “l’Ordine” e i “credenti” (!!). Si tratta semplicemente di mantenere la testimonianza della vita e della storia di contro al pensiero moderno e alla cultura profana, come più o meno noi facciamo. Non drammatizziamo troppo parlando di “catastrofe” e simili compiti “post-diluviali”». Lo scambio – ripubblicato in una delle ultime edizioni di “Cavalcare la tigre” per i tipi di Mediterranee, a cura di Gianfranco De Turris – testimonia bene dell’abisso che si staglia tra la mentalità del barone e tutta una certa nebulosa “tradizionalista” composta di circoli, rivistine e quasi-sette e che continua a ripetere a mo’ di mantra gli insegnamenti – ritenuti immortali, autosufficienti e definitivi – del maestro. È la differenza tra essere evoliano ed essere “evolomane”. Se la destra di oggi ha dimostrato di non saper vincere, in effetti, è forse colpa anche di una certa destra di ieri che ha dimostrato di non saper perdere (culturalmente parlando). Tirando per il braccio un Evola che in verità aveva offerto solo un dito, certi ambienti hanno in effetti costruito una sorta di “metafisica della sconfitta” in cui perdere non era più una possibilità da evitare ma, all’occorrenza, da affrontare virilmente, quanto piuttosto il discrimine tra “nostri” e “loro”. Si inventava di sana pianta, quindi, un partito metastorico degli sconfitti la cui appartenenza era un titolo d’onore, giacché tutte le battaglie perse sarebbero state vendicate nel domani che, certo, sarebbe appartenuto a noi non appena lo Spirito del mondo avesse voltato l’angolo del Kali Yuga verso la nuova alba che ci si immaginava “nostra” per decreto metafisico. Ha scritto giustamente Sandro Consolato che i neofascisti «furono indotti dai libri di Evola a sentirsi l’ultimo anello di un eonico “ciclo dei vinti” di cui facevano parte gli Ari primordiali espulsi dal paradiso artico della Thule, Giuliano Imperatore sconfitto dai “Galilei”, i ghibellini medievali sconfitti dall’alleanza guelfo-mercantile, la nobiltà dell’ancien régime travolta dalla Grande Rivoluzione e dall’avanzare del liberalismo e della democrazia, gli Imperi Centrali abbattuti dall’Intesa, quindi l’Asse annientato dall’alleanza tra sovietismo e liberal-democrazie, le quali ultime erano destinate a conoscere un universale trionfo del comunismo, secondo il principio che la “sovversione” non si può fermare a un grado intermedio». Quanto, di tutto ciò, era diretta espressione del pensiero evoliano effettivo? Qui si aprirebbe una parentesi sterminata di ermeneutica tradizionalista su cui già troppi litri d’inchiostro sono stati versati. Basterà solo ricordare che se qualche pagina particolarmente pessimista di Evola lasciava trasudare il veleno, egli non di meno portava con sé anche l’antidoto, la possibilità sempre latente della rigenerazione di quella storia che pure si voleva chiusa una volta per tutte in un determinismo negativo scandito dalla tetrapartizione perfettissima e definitiva di esiodea memoria. Lungi dall’essere monolitico come i suoi seguaci più dogmatici ritengono, il pensiero evoliano contiene differenti direzioni, soluzioni e possibilità ivi compresa quella di una riappropriazione creativa e plastica della contemporaneità. È, quest’ultima, la via meno battuta e certo il pertugio più stretto, ma si tratta comunque di un percorso presente e concreto. Maya permettendo.

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