Terroristi? No, semplicemente sovversivi

12 Giu 2012 20:08 - di

Ma insomma questi brigatisti rossi sono terroristi oppure no? L’interrogativo è legittimo leggendo le motivazioni della sentenza con cui il 28 maggio scorso la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha condannato undici imputati appartenenti appunto alle nuove Br (la definizione è dei media, in quanto i condannati non si sono mai definiti tali ma semmai aspiranti militanti del Partito Comunista Politico-Militare). Aldilà della consistenza o meno delle accuse – a detta della difesa, il tentato furto ad un bancomat di Albignaseco, un’esercitazione con le armi, alcune telefonate particolarmente livorose contro il giuslavorista del Pd Pietro Ichino – secondo i giudici, gli imputati avrebbero commesso violenza generica e non terroristica: «Mentre il delittuoso disegno eversivo traspare in modo palese, non si coglie il riferimento a strategie sorrette dalla finalità terroristica nei termini definiti dalla Corte di Cassazione». Ancora: nei loro progetti emerge il tentativo di lavorare alla destabilizzazione economica e politica dello Stato; il gruppo «non si fa scrupolo di lavorare a plurimi attentati», ma nei loro progetti non ci sono accenni «a operazioni concepite per generare panico o terrore e produttive di effetti collaterali». I giudici, nel sottolineare «l’aberrante visione ideologica degli imputati», ricordano però che per i cosiddetti brigatisti rossi (ma a questo punto possiamo anche rispolverare l’aggettivo “sedicenti”) «l’utilizzo delle armi è per fare politica e non per fare la guerra». In tal senso «il disvelamento agli occhi del proletariato del nemico di classe è operazione che va operata con chiarezza, e tendenzialmente rifugge da azioni violente polidirette».
Lo scorso 28 maggio, la seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, presieduta da Anna Conforti, dopo l’annullamento da parte della Cassazione delle condanne emesse in secondo grado, aveva inflitto 11 condanne da 2 anni e 2 mesi fino a 11 anni e mezzo di carcere, riducendo le pene per tutti, assolvendo un imputato e scarcerandone un altro. Ad Alfredo Davanzo, presunto ideologo del gruppo che, secondo l’accusa, stava preparando anche un attentato al giuslavorista Pietro Ichino, la Corte ha inflitto la condanna a 9 anni. E se nel giugno 2010 in appello la pena più alta era stata 14 anni e 7 mesi di carcere per Claudio Latino, ritenuto il capo della cellula milanese, a maggio la condanna si è ridotta a 11 anni e mezzo. La Corte infatti ha cancellato per tutti l’accusa di associazione con finalità terroristiche, derubricandola in associazione sovversiva. Come è noto, invece, la finalità di terrorismo è stata contestata dal giudice di Lecce, Ines Casciaro, all’imprenditore Giovanni Vantaggiato, reo confesso dell’attentato di Brindisi: lui sì avrebbe agito da “terrorista” nel collocare la bomba che ha ucciso una studentessa, gli imputati del Pcp-m no perché i loro progetti erano semplicemente “sovversivi”.
Come scrive il giudice estensore Fabio Tucci nelle 73 pagine di motivazioni, «mentre il delittuoso disegno eversivo traspare in modo palese» dai progetti di attentati e dal “foglio clandestino” che usava il Pcp-m, non si coglie però «il riferimento a strategie sorrette dalla finalità terroristica nei termini definiti dalla Cassazione (che aveva chiamato il “nuovo” appello proprio a “ragionare” sulle modalità della violenza del gruppo, ndr)». Soprattutto dall’azione dei presunti brigatisti si evince che questi avevano «obiettivi “di elezione”, funzionali ad attivare meccanismi di coesione di classe e di eventuale emulazione», ma non volevano compiere «azioni violente polidirette». Ossia nei loro piani «la popolazione non verrà intimidita strumentalmente». Per questo, in sostanza, è caduta l’accusa di terrorismo. Nell’ambito della loro «aberrante visione ideologica» non c’erano infatti «operazioni concepite per generare panico e terrore e produttive di “effetti collaterali”», che, secondo i giudici, caratterizzano il terrorismo. E malgrado gli imputati volessero con un progetto «eversivo e sovversivo» destabilizzare «le fondamentali strutture politiche economiche e sociali dello Stato» e non si facevano «scrupolo di lavorare a plurimi attentati», il loro agire era caratterizzato «da violenza generica e non terroristica».
Eppure al centro del processo c’era il progettato attentato al giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd. «Così come tragicamente era stato per Massimo D’Antona, anche Pietro Ichino costituiva un “obiettivo politico” della violenza eversiva del gruppo», scrivono i giudici riconoscendo il risarcimento in suo favore, risarcimento che era stato invece annullato dalla Cassazione. Al senatore del Pd, assistito dall’avvocato Laura Panciroli, la Corte ha riconosciuto la somma di 100 mila euro a carico degli imputati. A questo punto sorge spontanea la domanda: risarcimento a che titolo se gli imputati non sono da considerare terroristi? E che dire poi della testimonianza dello stesso Iachino, il quale lo scorso 28 maggio si presentò in aula per spiegare ai giudici che lui aveva pure avanzato una proposta di «dialogo» ai suoi possibili killer con i quali evidentemente voleva avere… rapporti civili. La proposta prevedeva la sua rinuncia al risarcimento, ma “in cambio” gli imputati dovevano riconoscere il suo «diritto a non essere aggredito». Ovviamente i militanti del Pcp-m se ne infischiarono e anzi, quando il senatore concluse l’intervento, inveirono contro di lui con una serie di proclami, come avevano già fatto nelle precedenti udienze, quando si erano lasciati andare ad esplicite invocazioni all’uso delle armi (cinque di loro, tra cui Davanzo, sono anche indagati per istigazione a delinquere per quelle frasi). In un altro passaggio delle motivazioni, infine, i giudici sottolineano come i militanti del Pcp-m avessero preso le distanze dalla «deriva militarista che aveva caratterizzato la storia delle Br», malgrado esprimessero sostegno all’episodio del «conflitto a fuoco con le forze di polizia che causò la morte di un agente» nel marzo del 2002 e che si concluse con l’arresto di «Mario Galesi e Nadia Lioce».

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