Il governo cede ai ricatti dei democrats
Ma sì, torniamo ai compromessi stile vecchia diccì, torniamo ai giochetti del “tolgo questo e metto quello”, torniamo alle febbrili telefonate, alle limature, alle convergenze poco parallele e parecchio oblique. Sul lavoro anche Monti cala la testa: c’è il sindacato rosso, ci sono i partiti ex rossi, ci sono i suoi alleati. Scalpitano e minacciano. Facciamo un passo indietro, niente decreto, niente decisionismo, scegliamo un comodo, morbido, modificabile disegno di legge. Che sarà sbiancato con i detersivi alla “paghi uno e ne prendi due”. Il Consiglio dei ministri scrive dieci capitoli, per complessive 26 pagine, con la formula del “salva intese”. E cioè, “fate pure le modifiche che volete”. Un modo per mettere in salvo Pier Luigi Bersani. Smentita la frase «la questione è chiusa», pronunciata da Monti ventiquattr’ore prima. Smentito l’aut aut della Fornero. Una pessima figura. Già in anticipo sui tempi il Quirinale, guarda caso, era sceso direttamente in campo, qualificandosi come parte in causa assieme al governo e affermando: «Non stiamo aprendo ai licenziamenti facili». Battuta che aveva anche l’obiettivo di addolcire i sindacati. E di aiutare Bersani. Una sorta di soccorso rosso annacquato.
Contentino a Bersani
Tutti contenti? No, le cose stanno esattamente come prima. È cambiato solo l’iter che il provvedimento ha di fronte prima di essere approvato. Le norme non verranno introdotte per decreto, ma passeranno attraverso un percorso parlamentare più articolato che tutti assicurano però di non voler ridurre al minimo. Il Pdl, in ogni caso, mette bene in chiaro che il percorso parlamentare potrà essere utilizzato «per migliorare il disegno di legge, non per smontarlo». Angelino Alfano manda a dire al presidente del Consiglio e alla Fornero che, se si apre alle modifiche le «richieste di cambiamento non possono essere di un solo colore». Una puntualizzazione che arriva dopo che giovedì lo stesso Alfano aveva avvertito che aperture alle tesi del Pd avrebbero messo in moto anche richieste del Pdl a favore delle medie e piccole imprese. Per i licenziamenti economici, comunque, non c’è reintegro che sarà invece disposto dal giudice «per i licenziamenti discriminatori e in alcuni casi di infondatezza del licenziamento disciplinare». Il testo del provvedimento prevede espressamente che «particolare attenzione sarà riservata all’intento di evitare abusi». Per le controversie in materia di licenziamenti è prevista l’introduzione di un rito procedurale abbreviato che ridurrà ulteriormente i costi indiretti. Insomma, non succederà più che una vertenza duri qualche decennio e alla fine comporti risarcimenti di centinaia di migliaia di euro, col rischio di costringere le aziende ad abbassare definitivamente la saracinesca. Basterà questo per tranquillizzare Bersani? Apparentemente sì. Nei fatti, però, le cose stanno in maniera ben diversa. Perché la Cgil è tutt’altro che soddisfatta e nelle fabbriche, in attesa dello sciopero di 16 ore indetto da Corso d’Italia, agitazioni e proteste sono già all’ordine del giorno. Se il Pd non sarà quindi nelle condizioni di ottenere correzioni importanti i conti a sinistra sono solo rimandati. «Io sono sereno sul fatto che si potrà ragionare – ha detto ieri il segretario del Pd – se no chiudiamo il Parlamento, ma non so se i mercati si tranquillizzerebbero».
Percorso a rischio
Ma se Atene piange, Sparta non ride. I problemi dei democratici sono sicuramente solo rimandati, per il governo, invece, i rischi aumentano. Un decreto e il successivo voto di fiducia, come suggerivano alcuni esponenti del Pdl, avrebbe consentito a Monti di puntare diritto al cuore del problema. Con il disegno di legge, invece, si apre una nuova partita, a meno di non dimostrare da adesso in avanti quel coraggio che ieri gli è mancato. «Chi ha un minimo di conoscenza delle procedure parlamentari – ha sottolineato Altero Matteoli – sa benissimo che il provvedimento non potrà essere varato in tempi rapidi». E che queste perplessità non siano campate in aria lo dimostra quanto dichiarato da Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, che, vanificato il rischio decreto, ha parlato di «buona notizia» e ha annunciato: «Daremo vita a un’azione di lobbing per fare in modo che si trovino soluzioni più vantaggiose per i lavoratori». Il «compromesso al ribasso», che paventa il vicepresidente dei deputati del Pdl Maurizio Lupi, è pertanto dietro l’angolo. Anche perché Massimo D’Alema non usa mezzi termini nel definire «confuse» le norme messe a punto del Consiglio dei ministri e nell’annunciare l’intenzione di «correggerle in Parlamento». Per Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro, il disegno di legge è stato «un atto di resa ai veti ideologici e la rinuncia al vero cambiamento atteso dalle istituzioni comunitarie e internazionali».
Statali parte in causa?
«L’Aspi partirà dal prossimo anno sarà universale e riguarderà tutti». Elsa Fornero tira fuori dal cilindro questo nuovo annuncio sui contenuti della bozza di provvedimento. La Cgil, però, non se ne cura e lancia un altro allarme: la possibilità che le novità introdotte valgano anche per gli statali. Il sindacato chiede quindi di sapere se il testo messo a punto dalla Fornero prevede una deroga esplicita a questa possibilità. E il ministro Filippo Patroni Griffi, chiamato direttamente in causa, non esclude nulla. Dice solo che si stanno valutando i «vincoli della Costituzione» e che al ministero è già al lavoro un tavolo aperto fin da gennaio. Il problema è tutt’altro che campato in aria. Rita Sanlorenzo, da 20 anni giudice del lavoro, attualmente alla Corte d’appello di Torino, non ha dubbi: l’esclusione degli statali dall’applicazione della normativa rappresenta «un pasticcio tecnico che pone dubbi di legittimità costituzionale».