La fiction contro il padre padrone dove il padre padrone è l’unico simpatico

4 Mag 2017 13:46 - di Redattore 54

Si parla già di un sequel per la fiction in quattro puntate “Di padre in figlia”  – la storia di una famiglia veneta di Bassano, i Franza, che produce grappa e che comincia nel 1958 per arrivare alla fine degli anni Ottanta – con cui la Rai ha sbaragliato la concorrenza raggiungendo il record di quasi 7 milioni di telespettatori. Un fumettone che non ha mancato di suscitare polemiche.  «Ci dipingono come puttanieri, alcolizzati e drogati, e non è così» dice Sandro Venzo di Confartigianato. Ma il sindaco di Bassano, pensando all’indotto turistico, è andato in brodo di giuggiole… 

Ma se si va più in profondità si scopre dell’altro. La fiction è stata ideata da Cristina Comencini (figlia di Luigi e tra le principali animatrici di Se non ora quando?) e scritta da Giulia Calenda (figlia della stessa Comencini e sorella del ministro Carlo Calenda), Francesca Marciano e Valia Santella. Un team femminile, è stato detto. Più che altro un salotto familiare che ha prodotto una storia dove non mancano i classici stereotipi del cripto femminismo. 

Vediamoli: i maschi sono tutti imbelli o oppressori, le femmine sono tutte volitive ma oppresse e infelici a causa dei maschi. E sono tutte fichissime e simpatiche, come la prostituta Pina, che si erudisce, vince al Rischiatutto e diventa una designer della Milano bene. Le tre sorelle Franza (Maria Teresa- Cristiana Capotondi, Elena- Matilde Gioli, Sofia-Demetra Bellini) soffrono le intemperanze conservatrici del padre-despota Giovanni (Alessio Boni) e, dopo una serie di peripezie incoerenti, alla fine si trasformeranno loro stesse in imprenditrici per salvare l’azienda di famiglia. La madre Franca (Stefania Rocca) pensa al suo amore di quando aveva 14 anni e sopporta passivamente il suo destino di moglie cornificata e madre. Una famiglia destrutturata da tradimenti e incomprensioni, dove tutte sognano di scappare in nome del “diritto alla felicità” ma alla fine miracolosamente si uniscono per risollevare le sorti economiche della ditta. 

E veniamo al padre padrone Giovanni: cosa fa di male in fondo? Confida nel figlio maschio per affidargli la ditta, lo coccola trascurando le figlie femmine, tradisce la moglie che non gli vuole bene ma lui le vuole bene, pensa che le donne devono metter su famiglia e non laurearsi in chimica. E’ indubbiamente antipatico come potevano esserlo tutti i capifamiglia degli anni Sessanta. Però poi scopriamo che si è accollato un omicidio commesso dalla moglie-bambina in Brasile, che è un gran lavoratore, che tollera la gravidanza fuori dal matrimonio della figlia, che si arrabbia tantissimo perché il figlio fa affari con la malavita e lo disconosce, che rompe i rapporti con la primogenita perché frequenta un gruppo di femministe barricadere e si fa arrestare per una manifestazione antiabortista,  che riaccoglie in casa una figlia drogata e squatter e un’altra figlia che ha abbandonato il tetto coniugale per fare la modella. Un cattivone maschilista? Mica tanto. In fondo è un bonaccione, sfruttato da femmine capricciose e insicure. Giovanni, il padre padrone, è l’unico che fa simpatia nella sua rocciosa e poco elastica coerenza mentre le donne cui si vorrebbe mettere l’aureola dell’emancipazione non sanno in fondo né di chi sono davvero innamorate né che cosa vogliono dalla vita né se il loro nemico è il povero padre padrone o la loro stessa identità fragile. 

Unica cosa degna di nota: la colonna sonora. Pezzi ben scelti e affiancati alla giusta situazione. Però un po’ poco per gridare al capolavoro che tutte le donne dovrebbero applaudire… 

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