La scomparsa degli industriali, mai come ora subalterni alla sinistra

7 Set 2016 16:35 - di Giuseppe Basini

In questo momento di crisi grave, che è anche crisi di civiltà, in cui troppi, talvolta perfino a destra, sembrano essere succubi dei dogmi e delle aberrazioni di una massificazione progressiva che sta corrodendo ceto medio, economia, libertà individuali e istituzioni democratiche, è forse il caso di guardare con più attenzione alle cause e alle colpe. Le responsabilità di politici, magistrati, sindacalisti, preti, intellettuali, euroburocrati e banchieri, in questa fase di preoccupante declino, sono state, sia pure in misura molto sbilanciata, tutto sommato evidenziate dalle opposte polemiche di commentatori di varia estrazione, ma è mancata finora una riflessione complessiva sugli industriali, parte non certo secondaria della classe dirigente di questo Paese. E il panorama è sconsolante. La borghesia industriale, piemontese, toscana, lombarda, patriottica e risorgimentale, che si mise in gioco per costruire il paese, rischiando in proprio beni e spesso la propria esistenza, per unificare la Nazione, portare il progresso e condividerlo, non è più che un lontano ricordo. Era una grande borghesia, aristocratica e idealista, convinta delle proprie ragioni e della propria missione. Poi, nell’arco di un secolo, la borghesia industriale, anche a fase risorgimentale conclusa, di nuovo non fu inferiore al proprio compito, accompagnò e spesso prevenne lo sviluppo del paese, ne costruì la struttura portante con l’industria pesante, le ferrovie, la rivoluzione elettrica, la motorizzazione di massa e ne condivise le sorti in pace e in guerra, inviando i suoi figli a combattere su tutti i fronti e i suoi esponenti migliori in parlamento. Restava una borghesia con uno stile, ricca, ma sobria e colta, avveduta ma pronta a rischiare e se non tutti erano così, lo era però la più gran parte e la parola data e l’onestà erano regole rispettate, pena l’esclusione sociale dal loro stesso ambiente.

Questa borghesia, nel secondo dopoguerra, in un’Italia stremata e pericolosa, trovò ancora la forza di opporsi in massa al comunismo avanzante, sia presidiando con la presenza fisica le proprie aziende, sia esponendosi finanziando diffusamente i partiti anticomunisti e questo durò fino al primo centro-sinistra, con la battaglia contro la nazionalizzazione della industria elettrica, le leggi sul diritto di superfice e quelle urbanistiche. La Confindustria fu il simbolo di quel lungo periodo, fu davvero l’espressione di un mondo che si sentiva unito da un comune sentire. Poi non fu più così, perchè la lotta contro il centro-sinistra fu l’ultima battaglia (quasi) unitaria. Da quel momento gli industriali italiani, hanno cessato di difendere un loro modello di società, sono lentamente usciti come gruppo dalla politica (e talvolta anche dall’industria. vendendo a gruppi esteri e ritirandosi) dividendosi in mille atteggiamenti e comportamenti diversi. Alcuni di loro, che già finanziavano organi radical-socialisti per promuovere una sinistra non ostile al capitalismo, appoggiarono i governi di centro sinistra, altri continuarono a sostenere la DC come freno moderato, altri ancora (i più in numero, ma non in peso) rimasero fedeli ad una impostazione di destra liberale e nazionale.

Era forse inevitabile e non per forza sbagliato, ma al paese venne a mancare, anche per effetto della crescita abnorme dell’industria di stato, un riferimento, un modello di società, che aveva fin lì accompagnato lo sviluppo della Nazione.  E gli effetti si videro, la grande stampa cominciò ad abbandonare le tradizionali posizioni per aprire ai socialisti e la stessa confindustria adottò una linea in sostanza consociativa. E oggi il ciclo si é compiuto. Una parte minoritaria, ma significativa, ha deciso di appoggiare la sinistra, da alcuni considerata  così cambiata da non rappresentare più un pericolo, da altri vista come utile tramite per gli affari.  Poi c’è una piccola parte che crede ancora nelle idee forti liberali, ma, isolata e priva di collegamenti reali, resiste per coerenza, però è sfiduciata sulla reale possibilità di incidere. Infine vi è la grande maggioranza, che non si occupa più di politica e del paese, tesa solo a curare i propri interessi (o quelli che crede i propri interessi, perchè un paese allo sbando e incline al pauperismo finirà per contestare anche loro) e anzi finge vanto di non occuparsene, come se questo desse una patente di verginità. Contatti col potere ne hanno, un pò per forza, un pò per vocazione mercantile, ma con la politica no.  Ma come è successo tutto ciò, come si é arrivati a questa dimissione di responsabilità? Ci sono tante ragioni, più o meno valide, dalla disistima verso gli uomini politici (in parte meritata, in parte però costruita da media tutti o quasi di proprietà di gruppi economici) col conseguente timore di vedersi accomunati, fino alla poca cultura di governo di una classe ormai avulsa dalla gestione pubblica, dalla paura di subire una aggressione come Berlusconi, che (si pensi di lui ciò che si vuole) ebbe il coraggio di mettersi in gioco,alla scarsa comprensione della semplice verità che, specie oggi, anche se non ci si occupa di politica la politica si occupa di noi. Ma la ragione principale e più generale è forse un’altra: gli industriali italiani sono divenuti culturalmente subalterni alle idee della sinistra. Subiscono le idee egualitarie e temono di essere giudicati in peccato per la ricchezza, una ricchezza da non evidenziare e dunque da non utilizzare in politica per un dovere che non sentono più. Certo, molti e tra loro i giovani delle start-up, resistono e non svendono, si occupano ancora seriamente della loro azienda e trovano ordinativi all’estero, ma non basta, non può bastare. D’altro canto la fierezza che gli industriali provavano, il senso di missione da compiere, erano di altri tempi e di altri uomini, uomini per cui la costruzione di un’azienda e l’impegno civile venivano assieme, che sapevano che le disuguaglianze erano una realtà necessaria, non un privilegio. Ma lo sapevano perché erano diversi, amavano agi ed eleganza, ma non erano alla ricerca di svago, era l’impegno la loro principale passione e la ricchezza un mezzo non un fine. Mandavano i figli all’estero per importare nuove tecniche e ampliare gli orizzonti, non per prepararsi una via di fuga. Alla fine il problema è che non abbiamo più Borghesi, ma solo ricchi.

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