25 Aprile, una festa ormai stanca: conviene abolirla. Per 3 motivi, eccoli

25 Apr 2016 10:17 - di Aldo Di Lello

Il 25 Aprile è ormai il rito stanco di una Repubblica in liquidazione. In liquidazione per le bislacche riforme di Renzi. In liquidazione perché incapace di difendere la sovranità popolare dall’invadenza di poteri extranazionali ed extrastuali. In liquidazione perché la politica pare irrimediabilmente delegittimata agli occhi dei cittadini. In liquidazione perché la solenne proclamazione  dell’articolo 1 della Carta (“l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”) è clamorosamente smentita dalla realtà di un Paese sempre più miserabile, dove l’ascensore sociale è bloccato da tempo e dove il lavoro è mortificato da leggi farlocche come il Jobs Act.

Che cosa c’è allora da festeggiare il 25 Aprile? Gli italiani hanno smesso di chiederselo da tempo. Tant’è che la maggioranza della gente, in questo 25 Aprile 2016, ha pensato perlopiù alle previsioni meteo per il lungo week end che dura fino al lunedì,  fuggendo dall’alluvione di retorica propria di questa giornata.

Conviene proprio abolirla come festa, derubricandola a semplice ricorrenza. I motivi sono 3. Proviamo a elencarli.

1) Sono sempre in meno a credere in questa festa

A credere in questa festa è una minoranza sempre più ristretta: quella dei vecchi e stanchi militanti della sinistra che non rinunciano al tradizionale corteo con la banda che intona “Bella Ciao” o quella dei giovani “antagonisti” desiderosi di andare in piazza solo per fischiare e insultare qualche notabile con la coccarda.

2) Il 25 Aprile ricorda a tutti il fallimento del sistema politico italiano

Il 25 Aprile ricorda oggi, implicitamente, a tutti il fallimento della Repubblica “nata dalla Resistenza“, il fallimento dei suoi processi di inclusione sociale, incapaci di reggere oggi agli tsunami della globalizzazione, il fallimento, soprattutto, della pretesa di affermare un’identità ideologica spacciandola per condivisa identità nazionale. Tale tentativo non è mai arrivato al cuore di un Paese cronicamente frammentato come l’Italia. Il Paese non è mai realmente guarito dalla sindrome della guerra civile, una sindrome che s’è manifestata, in questi 71 anni, nelle forme più diverse: non solo in quella fascismo-antifascismo o in quella comunismo-anticomunismo, ma anche in quella confessionalismo-laicismo, in quella tra questione settentrionale e questione meridionale, fino alle recenti contrapposizioni tra politica e antipolitica, tra nuove e vecchie generazioni, tra rottamatori e “vecchia guardia”. Tutto, in Italia, è lotta all’ultimo sangue e ogni cambiamento di classe dirigente si traveste sempre da passaggio di “regime”.

3) E’ lo specchio della divisione italiana

Il 25 Aprile è sempre stato (e rimane)  lo specchio di una endemica divisione. Ieri, quando il “patto repubblicano” tra i maggiori partiti (Pci e Dc) era forte, l’unità era di pura facciata. E non solo perché una parte dell’Italia, quella degli sconfitti della guerra civile 1943-1945, era discriminata politicamente e  non s’è mai riconosciuta nei “valori della Resistenza”, ma anche perché il mito della “guerra di Liberazione” s’è risolto essenzialmente in uno strumento di pressione politico-ideologica da parte della sinistra.  Oggi, che gli italiani non credono più in nulla che abbia il sapore della politica,  il 25 Aprile certifica un vuoto di valori e di coesione, dove la “ragione sociale” dei partiti appare evanescente o artificiosa, a sinistra come a destra, e dove il consenso politico è sempre precario e volatile. E la nemesi che colpisce i valori repubblicani è rappresentata, per bizzarro caso della storia, proprio dal leader del partito che dovrebbe raccogliere l’eredità della Prima repubblica: quel Matteo Renzi che chiede in ottobre il “plebiscito” sulla sua persona dopo aver varato una pasticciata riforma costituzionale con un maggioranza in perenne crisi di nervi.

Esercizio di retorica davanti a un’Italia stanca, indifferente, livida

C’è stato un momento, vent’anni fa, in cui si parlò di “memoria condivisa” e di riconoscimento  delle “ragioni dei vinti“. Ci furono il discorso di Violante e le lacrime di commozione del “ragazzo di Salò” Mirko Tremaglia. E per qualche tempo ci siamo illusi che si potesse ritrovare una storia comune e, insieme, riformare la Repubblica.

Ma è stata un breve stagione. La sinistra s’è rinserrata presto nei suoi fortilizi è ha agitato lo spettro dell’ “Ur-fascismo” (così lo chiamò Umberto Eco) contro il centrodestra al governo per gran parte del primo decennio del 2000. E il centrodestra, da parte sua, non ha saputo cogliere l’occasione propizia per riformare in profondità istituzioni e società, non riuscendo a legittimare, nella prassi e nella cultura, una Nuova Repubblica.

E così oggi, 25 Aprile 2016, assisteremo al solito esercizio di retorica davanti a un’Italia stanca, indifferente, livida. A chi e a che cosa serve più questa “festa”?

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