«La nuova commissione Moro è utile. A patto che non riesumi vecchi teoremi…»

17 Ott 2013 20:45 - di Giovanni Trotta

Suscita più di una perplessità l’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta da parte della Camera sul caso-Moro, soprattutto per il fatto – inspiegabile – che dovrebbe essere un organismo monocamerale, ossia solo di Montecitorio, composto da trenta deputati. Abbiamo chiesto il parere di chi di quella e di altre commissioni “importanti” fu consulente e collaboratore, nonché esperto di terrorismo italiano e internazionale, ossia Gian Paolo Pelizzaro. Giornalista, ricercatore, saggista, ha pubblicato tre saggi su questi argomenti, dalla storia della Gladio rossa ai segreti di San Macuto alla “polveriera” Libano.

Secondo Lei è positiva l’istituzione di questa nuova commissione?

Certamente sì, perché sulla vicenda Moro sono rimasti moltissimi punti oscuri e cose non dette, che allora non si potevano chiarire perché la situazione nazionale e internazionale era profondamente diversa.

Cosa intende dire?

È chiaro: nel 1979 non avevamo accesso ad archivi, penso a quello della Germania orientale o della Cecoslovacchia, dentro i quali ci sono certamente molte delle risposte che andavamo cercando. Oggi sono, sia pure in parte per quanto riguarda la Ddr, accessibili, così come quello, importante, dell’Ungheria, per cui penso che le condizioni siano mutate e che sia il momento dire la verità.

Quindi la verità non è stata detta tutta?

Il problema è che non bisogna avere paura di vedere la verità sfilarci davanti agli occhi, e ai tempi di quelle commissioni di cui stiamo parlando non era possibile far emergere le responsabilità di questa o quella parte politica, perché il dialogo – e quindi la ricerca storica – era intossicato da pregiudiziali ideologiche per cui, non appena si capiva in che direzione si stava andando, subito qualcuno “stoppava” tutto. Ma non è solo questo: prima non c’era internet, non c’era la Rete, c’era la Guerra Fredda, i protagonisti di quei giorni sono morti, da Andreotti a Cossiga ad Arafat, le fonti storiografiche sono molto più ampie, insomma oggi il lavoro della neo commissione si potrebbe svolgere più serenamente…

Perché ha detto “potrebbe” e non “potrà”?

Per i motivi esposti ora. Anzi, non nascondo che la commissione dovrebbe opportunamente sottoscrivere un accordo preventivo tra le parti mirante a non farsi più fermare da  attriti politici o partitici o, in ogni caso, ideologici, o da pregiudiziali vecchio schema. Non si deve in nessun caso arrivare a verità preconfezionate o complottiste, ma soltanto andare nella direzione dove condurrà la nuova documentazione.

È d’accordo sul fatto che la nuova commissione debba essere monocamerale?

Naturalmente no. Anzi, la decisione è decisamente preoccupante. Intanto non si capisce perché su questioni cruciali per la storia patria il Senato debba essere escluso, ciò che rappresenta uno “sgarbo” istituzionale imperdonabile. E poi perché storicamente tutte le commissioni che nel corso degli anni hanno affrontato argomenti di particolare importanza e rilevanza per la vita politica e sociale del Paese, sono state sempre bicamerali, proprio per rispettare gli equilibri politico-istituzionali del Parlamento e per offrire la più ampia e autorevole rappresentanza fra le forze politiche presenti nelle aule di Camera e Senato. Per questo, dopo la proposta di Beppe Fioroni, il 5 agosto, oltre un mese fa è stato presentato al Senato un disegno di legge per istituire una commissione bicamerale d’inchiesta “sul Caso Moro e sul fenomeno del terrorismo in Italia negli anni 1969-1985”, primi firmatari i senatori Luigi Compagna (Gruppo Gal) e Miguel Gotor (Gruppo Pd).

Perché, allora, è stata scelta la soluzione monocamerale?

Giacché abbiamo parlato di Andreotti, mi si consenta di ricordare una sua massima, ossia che a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Non vorrei, proprio non vorrei, che la nuova commissione abia il compito, per così dire, di giungere rapidamente a conclusioni non solo di parte e già scritte, ma soprattutto che rischiano di essere… inconcludenti. Insomma, il luogo comune preconfezionato del coinvolgimento dell’eversione atlantica nell’affaire Moro, ha fatto veramente il suo tempo e poi non è supportato dalle “carte”. E forse oggi ci sono le condizioni per un approfondimento serio che permetta di sondare e analizzare tutti i contesti che intervennero in quella vicenda e più in generale nel fenomeno terroristico e proprio per questo la sede politico-parlamentare deve essere la più ampia possibile.

Insomma, buttare a mare teoremi già scritti, ma conservare i fatti acclarati frutto del lavoro delle commissioni precedenti…

Ma certo: con il valore aggiunto che oggi possiamo guardare dove prima non si poteva, e che la pubblicistica di tutti questi anni ci aiuta, penso ai saggi di Miguel Gotor sull’argomento, per esempio, ma anche a quelli di altri. E non dimentichiamo la riforma degli archivi di Stato, che ce li rendono più accessibili di prima. E poi come facciamo a non tener conto, e questo emerse già in passato, delle lettere in cui il presidente della Dc accennava all’esistenza di accordi segreti tra l’Italia, Stato sovrano, e l’Olp, l’organizzazione palestinese? E anche su questo la nuova commissione sarebbe favorita dal lavoro della vecchia, dove si riuscì a fissare questo delicato argomento in un documento, con l’aiuto di Cossiga che ci aiutò a capire. La verità è che una pacificazione non è mai stata possibile poiché una memoria e una storia condivise, questo Paese non è mai riuscito a darsele. Il caso Moro, da questo punto di vista, è una sorta di vicenda emblematica delle grandi contraddizioni che hanno segnato la storia italiana e sulla quale – obiettivamente – c’è ancora tanto da cercare, investigare e scoprire.

Allora, questa commissione sarà utile?

Utile sì. Ma direi ancora di più: necessaria.

E quale viatico darebbe Lei, “veterano” di tante commissioni, a questo nuovo organismo?

Basta con le furie ideologiche.

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