La “sindrome di Stoccolma” ha 40 anni. Tutto partì da una rapina in banca…

21 Ago 2013 18:30 - di Antonio Pannullo

Il 23 agosto del 1973 un uomo biondo e dal viso ordinario fece irruzione nella sede della Banca di credito svedese a Stoccolma per compiervi una rapina. In quel momento nell’istituto si trovavano tra gli altri quattro giovani donne. Né l’uomo, né quelle che poche ore dopo sarebbero diventate suoi ostaggi, potevano immaginare che quella storia, in realtà così comune, avrebbe dato il nome ad un comportamento psicologico noto in tutto il mondo come “Sindrome di Stoccolma”. Jan Erik Olsson, a quell’epoca 32enne, era un ladruncolo di piccolo cabotaggio ed era in permesso dal carcere della capitale svedese dove era detenuto per furto. Tentò la rapina in una mattinata di sole ma si rese subito conto che avrebbe dovuto compiere un salto di qualità nel suo percorso criminale. Decise di tirare fuori le armi, di sequestrare le quattro impiegate e chiese di essere affiancato da uno dei più noti criminali svedesi del momento, Clark Olofsson, 26 anni. Poi diede il via alle operazioni affermando beffardamente: «La festa è solo all’inizio!». La crisi degli ostaggi di Stoccolma, che durò sei giorni, fu il primo avvenimento di cronaca nera a essere diffuso dalle televisioni in tutta la Svezia ed ebbe quindi un risvolto spettacolare assolutamente imprevisto, anche se si risolse con la riconsegna degli ostaggi sani e salvi e con la resa dei rapinatori. Ma ciò che turbò l’opinione pubblica inchiodata davanti alla tv e con la radio incollata alle orecchie, fu l’atteggiamento delle vittime del sequestro, anch’esso totalmente imprevisto. Oggi Olsson – che viene descritto come un pacifico pensionato di 72 anni – racconta così il rapporto con quelle donne nell’angusto corridoio tappezzato di moquette della banca: «Gli ostaggi mi erano sempre più o meno vicini, praticamente mi proteggevano e così la polizia non poteva spararmi», ha detto alla Afp. «Anche quando andavano in bagno, dove la polizia avrebbe potuto intervenire per salvarle, alla fine tornavano sempre». C’era, emerse subito, uno strano legame tra sequestratori e sequestrate successivo alla paura iniziale che Olsson aveva cercato di incutere loro; c’era, lo disse subito l’ostaggio Kristin, un capovolgimento del senso comune: «Lo capite che non ho paura di Clark e di quell’altro tizio, lo capite che ho solo paura della polizia? Ci crediate o no noi qui non stiamo male», gridò nel telefono agli agenti là fuori. Ce n’era abbastanza perché lo psichiatra americano Franck Ochberg si occupasse della vicenda e coniasse il termine “Sindrome di Stoccolma”, a indicare che c’era qualcosa di non sano nell’attaccamento tra vittima e carnefice nato nel buio corridoio in quei sei giorni. Un disagio – oggi il termine è abusato, in Italia si usa persino in politica – che si regge su tre pilastri, secondo lo studioso: attaccamento che può sconfinare nell’amore, reciprocità tra i due protagonisti e immedesimazione, disgusto nei confronti del mondo esterno, quasi vi fosse un “noi e loro” che separa i protagonisti della vicenda estrema dalle persone normali, “quelle là fuori”. Da allora quando l’animo umano si conferma insondabile, innumerevoli volte in tutto il mondo si e’ evocata la sindrome coniata da Ochberg, perché resta difficile ad un osservatore comune penetrare e comprendere casi come quello di Patricia Hearst, ricca ereditiera americana diventata guerrigliera simbionese, o dell’austriaca Natascha Kampusch sequestrata per anni dal padre aguzzino, o ancora dell’italiana Giovanna Amati vittima di un sequestro dei marsigliesi, o come l’ultima terribile vicenda emersa a Cleveland, dove per decenni mostri come Ariel Castro e i suoi fratelli hanno tenuto in cattività tre giovani donne.

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