Guasconi e sognatori, ritratti di combattenti idealisti “Ai confini del nero”

31 Lug 2013 14:23 - di Angelo Spaziano

Ma c’era proprio bisogno di un’altra opera narrativa “da battaglia”? Sul secondo conflitto mondiale, poi? Si, ce n’è sempre bisogno, se è vero che Hegel inneggiava alla guerra come elemento vivificante dello spirito e il futurista Marinetti ne decantava la sublime bellezza, paragonabile solo all’ebbrezza della velocità. E manco a farlo apposta, in quest’epoca di sgangherato minimalismo, peloso buonismo e di sentimentalismo ipocrita è appena approdato nelle librerie un nuovo – tosto – romanzo. Di guerra, naturalmente. Anzi, a dire il vero i racconti “sotto la mitraglia” stavolta sono ben cinque, poiché nel volumetto edito da Settimo Sigillo e dal titolo Ai confini del nero, sono inserite cinque narrazioni e una breve chiosa finale. Le vicende delineano a tinte drammatiche le esperienze di cinque giovani italiani, entusiasti militi dell’ideale, le cui vite “fioriscono” proprio nel pieno vigore del Ventennio fascista.

Cinque ragazzi assai diversi, ma tutti un po’ guasconi e un po’ sognatori, che all’improvviso vedono le proprie esistenze e quelle delle proprie famiglie risucchiate nel tritacarne del secondo conflitto mondiale. L’ultimo testimone che prende commiato dal quintetto è proprio l’autore, Mario Michele Merlino, che “saluta” i lettori offrendo alla loro attenzione brevi lacerti di vita vissuta in prima persona. Nel libro, come nelle classiche tragedie greche, il dolore, il tradimento, l’umiliazione, la perdita e la morte – ma in particolare la morte dell’amata Patria – diventano catarsi e palingenesi. Una catarsi che vedrà i cinque imberbi ragazzini trasformati da ingenui idealisti in uomini navigati e amareggiati. Amareggiati in primo luogo dalla cocente, ingiusta sconfitta. Una catastrofe esistenziale e spirituale che li segnerà fin nei recessi dell’anima per tutto il tempo che resterà loro da trascorrere esuli su questa terra. Antonio, per esempio, farà suo il destino di chi seppe combattere con valore e sprezzo della vita tra le roventi sabbie di El Alamein, sputando sangue e imprecando per la penuria di generi di conforto e di carburante, di medicinali e attrezzature, di armi e di munizioni. Proprio laddove a fare da controcanto fra le file nemiche sarà la sfacciata profusione di armamenti e di vettovagliamento. Mancò la fortuna, non il valore, ma di sicuro un po’ più d’equipaggiamento avrebbe fatto la differenza. Tuttavia, pur fra tanta sofferenza fisica e morale, tra le insanguinate dune del deserto egiziano Antonio troverà la sua lampada d’Aladino. Un Genio dalle insolite sembianze di un incomprensibile libro scritto in lingua tedesca.

Il ritratto dell’amico Ugo Franzolin, venuto a mancare di recente, è un lirico inno d’amore. Un cordone ombelicale che, se già legava il giovane Ugo al proprio fratello, Caduto anzitempo al fronte, ancor di più unisce in un eroico afflato cameratesco quella splendida gioventù che, nella disperata epopea della Rsi, volle sacrificarsi e morire a testa alta per riscattare l’onore patrio. Un guizzo d’italico orgoglio compiuto pur sapendo che ormai tutto era finito e la resa dei conti si profilava implacabile all’orizzonte della storia. Poi c’è Aldo, romanaccio scanzonato e un po’ rodomonte, vita tranquilla, un amore pienamente corrisposto, un’esistenza trascorsa senza troppi affanni. Ma ecco che il destino irrompe cinico e beffardo a scompigliare la sua placida routine. La chiamata alle armi, la partenza, la paura che intorcina le budella, il tradimento dell’8 settembre. Tutto sembra complottare perchè Aldo veda nell’imboscarsi alla chetichella la soluzione migliore per non lasciare le penne in uno sporco affare che tutto sommato non lo riguarda affatto. Nessuno – ne è certo – lo denuncerebbe come disertore e la vita potrebbe riprendere il suo solito tran tran come se nulla fosse. Eppure… Eppure il disperato, caparbio e irragionevole orgoglio degli ex alleati d’oltralpe aprirà paradossalmente gli occhi a questo giovane ignavo che alla fine capirà. Capirà che, sì, è importante vivere in santa pace la propria vita, ma ancora più necessario è combattere. Battersi fino in fondo per l’onore, per la dignità, o forse soltanto per un senso estetico dell’esistenza, per sentirsi davvero uomini con la U maiuscola. Perché è facile, bello – e scontato – restarsene “inguattato” o passare dalla parte dei vincitori, ma ci vuole fegato a buttarsi nel mucchio e schierarsi coi vinti.

E siamo a Terenzio Manni. Terenzio è giovanissimo quando l’8 settembre uccide la Patria e stende sugli italiani tutti l’infamia del tradimento. Lui, insieme con un amico, Luigi, riesce in modo rocambolesco ad arruolarsi nella divisione Hermann Goering della Wehrmacht. La ragione? “Non pensano al futuro, ma marciano verso il domani, qualunque esso sia … “. Sublime. Infine c’è Adelmo. Egli ha tentato di essere uno di quei giovani orgogliosi che hanno costituito la parte più nobile del regime. Era uno delle Brigate Nere. Uno tosto, pronto a tutto. Eppure Adelmo, proprio quando il sipario stava per calare definitivamente sulla tragedia, inorridito, s’è tirato indietro. Ma il destino sta lì in agguato, ad attenderlo per un tempo lunghissimo, pronto a presentargli il conto. Un conto salato, Dio solo sa quanto. Ma paradossalmente, proprio in quel terribile giorno degli anni di piombo nel quale la Nemesi si riprende quanto dovuto – e con gli interessi… – per Adelmo giungerà il vero riscatto alla sua grigia, anonima  esistenza. Le figure femminili spaziano dall’immagine della Madre dolce e premurosa a quello delle giovani donne che, pur esposte anch’esse alla crudele vendetta dei vincitori amano fino alla fine in modo totale e disinteressato i loro valorosi uomini. La cultura del dono come possibilità di trasmettere ciò che oggettivamente non può essere dimenticato. La bellezza, in tutte le sue accezioni, per Merlino è veramente l’unica possibilità di salvare l’umanità. Perché in fondo solo chi ha il fegato di cercare la bella morte è capace di condurre una vita che davvero valga la pena di essere vissuta.

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