Perché nessuno parla ora di “primavera brasiliana”?

18 Giu 2013 20:48 - di Marcello De Angelis

A San Paolo decine di migliaia di persone si sono date alla strada, lanciando sassi e molotov alla polizia, incendiando macchine ed erigendo barricate. Come a Istanbul per capirci. Anche in Brasile si tratta – a detta dei media mondiali – di studenti e “giovani”. E qui ci sarebbe già da fare una riflessione sociologica sul perché – dal 68 ad oggi – sono sempre gli studenti a sfasciare le vetrine. Forse perché i lavoratori nel frattempo stanno lavorando e i disoccupati cercando lavoro… ma comunque, anche a San Paolo le stesse maschere di Guy Fawkes (ma non bisogna pretendere troppo dai nostri giornalisti che le chiamano “maschere di anonymous) e stessi slogan, tipo “meno stato più popolo” (un titoletto caro all’ex speculatore mondiale Georges Soros, nuovo sponsor e finanziatore di tutti gli indignados del pianeta e apostolo della “democrazia planetaria” contro tutti i governi e tutte le nazioni). Quindi: studenti in piazza, mascherine con baffi e pizzetto, barricate incendiate e nel caso del Brasile addirittura un’occupazione simbolica del Parlamento.. Quindi, perché quella turca è una primavera e quella brasiliana no? Tra le due nazioni ci sono anche altre analogie: sono entrambi Paesi emergenti e dallo sviluppo economico rapido e crescente. Il Brasile è la “b” dell’acronico brics, che riassume il blocco delle nuove potenze che insidiano il primato degli Usa. Anche in Brasile governa lo stesso partito da un decennio, un tempo sufficientemente lungo da aver permesso un cambiamento radicale e profondo della società e degli assetti di potere. Ma in quel caso nessuno parla di regime. Forse la ragione è che i governanti contro cui si rivoltano gli indignados brasileiros non appartengono alla categoria del politicamento scorretto. Anzi, sono i beniamini del politicamente corretto. Il nuovo corso è stato iniziato dal presidente Lula, leader del partito dei lavoratori, amico di Castro e Chavez e anfitrione del festival no-global di Porto Alegre, dove sfilarono anche tutti i leader delle varie famiglie comuniste e post-comuniste europee e italiane. Di Lula si dice ogni bene: ha fatto tutto il meglio per i poveri, per le donne, per il dialogo e la cooperazione tra i popoli, per il laicismo assoluto, per i gay e per i giovani. Il testimonial del suo governo del paradiso in terra è stato raccolto da Dilma Roussef, che è donna – e quindi ancora più politicamente corretta – è stata ministro nel governo di Lula ed è una ex-guerrigliera che è stata prigioniera della dittatura militare che dominava il Brasile negli anni 80. Si dice – ed è tristemente molto probabile – che sia stata anche vittima della tortura, ma lei preferisce non parlarne. Eppure persino contro di lei si è scatenata l’indignazione dei giovani globali che volgiono decidere del proprio futuro e – quindi – sfasciano le vetrine. Ormai ovunque ferve la rivolta. Ed è sempre primavera. Ci si scontra per non far tagliare alberi, per non far costruire ferrovia super-veloci o, come nel caso del Brasile, perché si ritiene che i soldi investiti per il mondiale di calcio (che pure saranno un volano economico enorme per lo Stato sudamericano) siano uno spreco. Altra strana similarità tra Brasile e Turchia è la tendenza a candidarsi a tutti i grandi eventi mondiali con discrete possibilità di vincere e con la capacità di attrarre ingenti capitali nazionali ed esteri per la realizzazioni di infrastrutture che danno lavoro a decine di migliaia di persone. Tutte cose che fanno arrabbiare gli indignados e forse anche qualche Paese altro che nutre una ragionevole invidia per queste potenze emergenti. Fatto sta che, altra regola, queste rivolte di “giovani e studenti” esplodono sempre nei Paesi che dopo decenni di depressione hanno conosciuto un rapido benessere. E quelli che fanno gli scontri sono, curiosamente, proprio quelli che hanno beneficiato di questo improvviso benessere, o perché ne vogliono di più o perché, sempre più spesso, alla crescita preferiscono la “decrescita”. Facile il compito dei giornalisti radical-chic quando la protesta è contro un uomo con i baffetti magari musulmano, se a prendersi le pietre è una Che Guevara al femminile che cosa si possono inventare? Un fatto è certo: la polizia del governo social-comunista brasiliano non è più tenera di quella turca, inglese o statunitense. La polizia “mena” e usa i gas urticanti per disperdere i manifestanti, persino in Svezia. L’Onu potrebbe proporre un bando sui manganelli dei poliziotti. O magari anche sui paraocchi dei giornalisti.

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