Trentasette anni fa iniziava l’agonia di Sergio Ramelli

14 Mar 2012 20:06 - di

Erano le 13 del 13 marzo 1975 quando Sergio Ramelli, classe 1956, ex-studente all’istituto tecnico “Molinari” di Milano, parcheggiava il motorino a pochi passi dalla sua abitazione. Capelli lunghi e sguardo scanzonato, Sergio giocava a pallone e tifava Inter. Un ragazzo come tanti altri. Ma agli occhi dei servi dell’ideologia aveva una colpa gravissima: era un militante del Fronte della Gioventù. All’inizio nessuno all’istituto era a conoscenza della cosa. E del resto lui si comportava come nulla fosse. Era simpatico, generoso, allegro, solare. Tuttavia, durante l’ultimo anno di frequenza, la sua militanza nei ranghi della destra divenne di dominio pubblico. Inoltre, ebbe l’ardire di scrivere un tema contro le Brigate Rosse e osò esprimere posizioni di condanna del terrorismo brigatista, con l’aggiunta, per di più, di una nota di biasimo verso il mondo politico dell’epoca. Il tema, dopo essere stato trafugato, fu successivamente esposto in una bacheca scolastica e usato come “capo d’accusa” per  un sommario “processo politico”. Fu l’inizio di un’autentica “via crucis” che portò Ramelli dritto al martirio.
Dopo due aggressioni e un atto d’intimidazione verso i suoi genitori da parte dei teppisti rossi, il giovane, nel febbraio 1975, decise di proseguire l’anno scolastico in un istituto privato, ma neppure questa precauzione servì a salvargli la vita. E torniamo all’agguato. A un tratto, il ragazzo venne circondato da un’orda di appartenenti al servizio d’ordine di “Avanguardia Operaia” proveniente dalla facoltà di Medicina e per lui non ci fu scampo. Sergio venne selvaggiamente colpito alla testa con le Hazet 36. Perse i sensi e cadde esanime al suolo. Dopo lunghi minuti di agghiacciante silenzio, un passante avvertì la portinaia del palazzo dove il giovane abitava. La donna telefonò alla polizia e un’ambulanza portò Sergio all’Ospedale Maggiore, dove subito fu sottoposto a un disperato intervento chirurgico. Ma tutto fu vano. La morte sopravvenne dopo 48 giorni d’agonia, il 29 aprile 1975. Nel corso dell’assemblea consiliare al Comune che fece seguito alla vile aggressione, vi fu pure chi applaudì alla notizia.
Il giorno prima che Ramelli morisse, un gruppetto di ultracomunisti si recò presso la casa della famiglia Ramelli dove affisse un manifesto in cui si minacciava di morte il fratello di Sergio, Luigi Ramelli. In seguito agli accertamenti si venne a conoscenza che l’aggressione era stata compiuta da due persone, entrambe sui 18-20 anni, con il supporto di un nutrito gruppo di sconosciuti. Il commando aveva agito a piedi ed era poi fuggito verso la Città studi facendo perdere le tracce. Durante i funerali, dalle finestre delle aule della facoltà di Medicina alcuni individui con i volti coperti da stracci rossi fotografarono i partecipanti al funerale. Molte di quelle foto sarebbero state ritrovate nel dicembre 1985 nello schedario clandestino rinvenuto nel covo brigatista di viale Bligny. Lo schedario, istruito nei primi anni Settanta da Avanguardia Operaia e poi finito in mano ad altre organizzazioni, risultava in possesso di Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, due ultracomunisti. Un esponente di Avanguardia operaia, Francesco Cremonese, confermò l’esistenza di una struttura paramilitare occulta nell’Università degli Studi di Milano, che vedeva come capi Giovanni Gioele Di Domenico per la facoltà di Agraria, Roberto Grassi a Fisica e Marco Costa a Medicina, tutti agli ordini di Giuseppe Ferrari Bravo, leader dell’organizzazione. Il 16 marzo 1987 cominciò il processo. Per i fatti risultavano imputate dieci persone tra ideatori, mandanti ed esecutori. Secondo la ricostruzione operata dagli inquirenti, i due assassini furono identificati in Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, soprannominati “gli idraulici” proprio per via delle Hazet 36 abitualmente usate per compiere le loro “missioni”. Le accuse pertanto erano omicidio volontario, tentato omicidio, sequestro di persona, associazione sovversiva, danneggiamento. Il pestaggio era stato deciso dal responsabile del servizio d’ordine della colonna di Ao legata a Città Studi, Roberto Grassi, morto suicida prima del processo. Il 16 maggio 1987 la II Corte d’Assise di Milano giudicò tutti gli imputati colpevoli di omicidio preterintenzionale. Venne riconosciuta la volontà di ferire, ma non quella di uccidere. Marco Costa ebbe 15 anni e 6 mesi di reclusione e Giuseppe Ferrari Bravo 15. La condanna non soddisfece il pm, che fece ricorso. Il 2 marzo 1989 la II sezione della Corte d’Assise d’Appello accolse le richieste del pm, tuttavia, nonostante l’accusa fosse mutata in omicidio volontario, venne riconosciuta l’attenuante del concorso anomalo, che ridusse sensibilmente le pene. Costa quindi passò da 15 anni a 11 e 4 mesi; Ferrari Bravo da 15 a 10 e 10 mesi, sentenza confermata in Cassazione. Costa e Ferrari Bravo tornarono per breve tempo dietro le sbarre, mentre gli altri imputati poterono usufruire di un condono e di pene alternative per via della loro “condizione sociale”. E poi dicono che la giustizia è uguale per tutti.

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