La complessità del reale
Tre parole per liberare la storiografia dall’ideologia: raccontare i fatti. Anche con l’aiuto di cinema e letteratura
Incombe un grande lavoro di ricostruzione accademica e narrativa della storia italiana antica e moderna, facendo propria la lezioni di Polibio e recuperando quell'amore per la verità che troppo spesso lascia il passo alla politica
Iniziamo con la solita dotta citazione, stavolta ciceroniana: Historia opus oratorium, che, comunque la s’interpreti, pone il problema dell’interconnessione tra storiografia e politica. Rapporto inevitabilmente difficile, direi conflittuale, come del resto ogni rapporto tra narrazioni e fatti, in mezzo ai quali c’è o non c’è la sincerità. E qui ci occorre Polibio: «Bisogna che un uomo virtuoso sia affezionato agli amici e amante della patria, e, con gli amici, odiare i nemici e amare gli amici; ma qualora assuma la veste dello storiografo, deve dimenticare ogni cosa del genere, e spesso onorare di grandi lodi i nemici, quando le loro gesta lo richiedano, e condannare e rimproverare i più stretti amici, qualora gli errori dei loro atti lo indichino».
Belle parole, ma leggiamo, dovunque nel mondo, tantissima storiografia da definire semplicemente patriottica, e perciò animata da nobili sentimenti e intenti, se non che tra gli intenti non c’è sempre e solo la verità. Potremmo addurre esempi a iosa, e ci basta uno dei più noti, la settecentesca leyenda negra sulla Spagna, tacciata di ogni crimine e ogni perversione sia dalla storiografia francese per rivalità politiche e militari, sia da quella inglese per le stesse ragioni, e in più ammantate di conflitto anticattolico.
E siccome la storiografia accademica italiana dipende molto, troppo, da quella francese, ne ripete acriticamente le conclusioni. Prendiamo Lepanto 1571 su un libro di testo italiano e in bocca a un professore diligente, il quale si farà un dovere di insegnare che la battaglia andò male… o semplicemente salta il paragrafo. Sono effetti della storiografia straniera o di quella protestante, e posso anche capirlo dal loro punto di vista. Capisco pochissimo e niente perché non ci sia una storiografia italiana che dica il contrario, nel senso che dica la verità.
Ci fu, ricordiamo, una storiografia patriottica italiana, nel XIX secolo e nel seguente, però anch’essa condizionata proprio dall’ideologia patriottica, nobile però cieca come tutti gli amori. Per dirne una, il Croce fa iniziare la storia d’Italia con la nascita dello Stato unitario, anch’essa raccontata come se fosse la finalità stessa della storia, e di una storia destinata a quello e non altro esito. Tutti i precedenti… omissis. È vero, ovvio, che non c’era un’Italia in senso politico. È però una buona ragione per non conoscere tutte le Italie dall’inizio della divisione, il 568, all’unificazione, per altro parziale, del 1861? O trattare da “staterelli” quelli che, per piccoli che fossero, ci hanno lasciato l’arte e la letteratura più grandi del mondo… e, ancora per dire la verità, senza dubbio molto più grandi che dal 1861 a oggi?
E già, senza i bellicosi dogi, e gli astuti e diplomatici duchi Estensi, e certi papi non esattamente umili e santi, e i vituperati re e viceré di Napoli, e gli avventurosi Medici, senza di loro e tanti altri non avremmo città e chiese e statue e quadri e oggi musei; e se Firenze fosse stata una pacifica comunità, Dante non avrebbe sbattuto mezzo Medioevo all’Inferno, parenti inclusi! E sono tutte faccende ben note a qualsiasi professore che sappia fare il suo mestiere, e se ne impipi del politicamente corretto; ma se ne parla poco e male.
Un esempio meridionale. Per il 2027, l’Europa ha indetto un “anno dei Normanni”: che farà, l’Italia, e che farà il Meridione, che a quei barbari geniali tanto deve? E che dire di Roma, finita in mano a filmoni approssimativi e a storici tendenziosi, a colpi di imperatori pazzi e corrotti? Roma che vorrebbe dire anche il latino, sempre più dimenticato; latino senza il quale (per dire cosa utile all’attualità!) non c’è serietà del diritto.
E ci avviamo verso un sentiero ancora più sdrucciolevole e pericoloso: la storia italiana dal 1789 al 1945… da allora a oggi, è troppo presto, o è quasi solo spicciola cronaca. Dal 1789, l’Italia viene coinvolta nei fatti della rivoluzione francese e di Napoleone fino al 1814: e nemmeno possiamo sopportare la narrazione secondo la quale chi è stato “giacobino” era bravo e bello, e chi si oppose era brutto e cattivo. Furono trent’anni di accelerazione della storia e di conflittualità, e così vanno narrati, senza ideologie.
I fatti dal 1815 al 1871 non possono essere raccontati come un campionato tra patrioti e antipatrioti, bensì si presentano in modo molto più complicato sia per i concetti sia per le azioni; e non mancarono aspetti di lotta ideale e di scontro tra ceti; e quanto accadde fu tutt’altro che lineare, anzi denso di stuzzichevoli contraddizioni. Letteratura e cinema hanno affrontato i temi molto meglio della storiografia accademica: l’elenco è lungo, e cito solo Il Gattopardo. Servono altri romanzi e altri film. Per il 1871-1918 ci aiutano la poesia di Carducci, Pascoli, d’Annunzio, se saputa leggere; e il Futurismo.
E ora ci immettiamo in una selva oscura, il Ventennio fascista: in senso lato, 1919-45. Sappiamo tutti che il racconto è ufficialmente antifascista; però è curioso che, se elenchiamo i libri antifascisti e quelli palesemente nostalgici, questi sono sicuramente tanti di più, e ne sono piene le case degli anziani: libri degli anni 1950-80, magari con più foto che storia, però tantissimi. Ovvio che i tanti libri filofascisti, e lo stesso quelli di segno contrario, poco ci dicono della verità dei fatti; e meno che meno dei fatti bellici dal 1940 al ’43. A questo proposito, si sente dire quasi solo dell’8 settembre (come, per la Prima guerra mondiale, solo di Caporetto), mentre i fatti furono assai di più e per numero e per consistenza. Il Ventennio va a sua volta solo raccontato.
Incombe dunque un grande lavoro di ricostruzione della storia italiana antica e moderna. Devono farlo gli storiografi, e anche, forse meglio, dei romanzieri di valore; e il cinema di qualità. Tutti con la massima responsabile libertà di creazione; però certi di ottenere adeguati sostegni presso chi ha questo compito.