L'intervista
«Su Lotta Continua raccontavo la delusione delle rivoluzioni comuniste. Il Tg4? Feci una richiesta folle, accettarono». Parla Toni Capuozzo
La voce di un reporter "di confine": il tentativo giovanile di fare il marinaio, il giornalismo arrivato dopo aver mollato il posto fisso, il ricordo di Berlusconi e quello di Grilz: «L'estremismo di sinistra è sempre stato tollerato, lui trattato da morto di serie B»
Toni Capuozzo lo incontriamo in una pasticceria napoletana a Milano, lui friulano ha attraversato il mondo raccontandone le guerre, le paure e le vite spezzate. Ma c’è di più perché dietro quella cadenza, quelle parole ponderate, quella voce roca c’è l’essenza di chi cerca lo spirito di questo tempo. Non è solo un giornalista, non è solo un reporter, ma resta ancora pochi giorni dopo aver compiuto 78 anni un mirabile intreccio di esistenze. Il suo sguardo, scomodando Paolo Conte, è una veranda capace di accogliere, dagli anni ‘70, milioni di lettori e di telespettatori.
Capuozzo a quanti anni di giornalismo siamo arrivati?
«Quarantotto. La prima cosa che ho scritto risale al 1978 alla soglia dei 30 anni».
E prima cosa faceva?
«Da ragazzo, mentre andavo a scuola, ho fatto tutti i lavori. A quel tempo io e i miei coetanei, nella pausa scolastica, lavoravamo d’estate. Sono stato manovale edile, imbianchino, operaio in fonderia, scaricatore al mercato e durante l’università ho insegnato nei centri di formazione professionale».
Il posto fisso?
«Ero assunto a tempo indeterminato. Teoricamente avrei potuto continuare lì fino alla pensione, ma nonostante fosse affascinate insegnare a chi doveva concludere la scuola dell’obbligo ho voluto cambiare. Era estremamente faticoso e mi impegnavo duramente. Cioè non facevo molte ore, ero una specie di insegnate di religione, ma insegnavo italiano. Quello che contava lì era imparare il mestiere. Facevo, praticamente, l’assistente sociale».
Ha mantenuto i contatti con qualcuno dei suoi studenti?
«Ancora adesso mi invitano alle cene degli ex allievi. Ora sono tutti in pensione».
I suoi studi invece?
«Mi sono laureato in Scienze Sociali alla facoltà di Sociologia di Trento».
Dove spopolavano i fondatori delle Br Mara Cagol e Renato Curcio. Li ha conosciuti?
«Curcio l’ho visto qualche volta, ma non ho frequentato molto l’università. Mi ricordo di lui perché faceva una rivista marxista-leninista, molto ortodossa, che si chiamava Lavoro politico. Altri miei compagni universitari, più stabili nella frequenza, mi dicevano che non parlava mai. Nelle assemblee prendeva raramente parola. Forse era già pronto per la clandestinità».
Dopo la laurea?
«Vivevo con una fidanzata dell’epoca, come detto il lavoro che avevo poteva condurmi alla pensione, ma sentivo che non era il mio. Non era quello che volevo. In più quel periodo ha coinciso con il terremoto del Friuli (il prossimo 6 maggio saranno 50 anni da quel tragico avvenimento che portò alla morte di quasi mille persone, ndr) ed è stato il giro di boa della mia vita. Ho mollato tutto e sono andato in giro, il mio sogno era imbarcarmi. Da ragazzo volevo fare il marinaio. Sono partito per l’Europa non trovando niente. Quella, purtroppo, non era ancora l’epoca delle crociere, le uniche navi che ho trovato erano con poco equipaggio e, quasi, sempre filippino».
In che porti è stato?
«Genova, Marsiglia e Rotterdam senza trovare niente. Così ho preso uno dei primi voli low cost per l’America e sono partito. Senza un progetto preciso».
L’atterraggio dove l’ha condotta?
«Sono arrivato in America centrale precisamente in Nicaragua, situazione molto tesa. C’era una guerra in corso perché l’azione di Somoza, il dittatore locale, aveva bombardato alcuni villaggi, così ho scritto su un quadernino tutto quello che vedevo. A quel punto i soldi che mi erano avanzati della liquidazione con cui avrei dovuto finanziare un lungo viaggio – il mio sogno era arrivare in Brasile – li ho spesi per tornare in Italia. Arrivato a Roma sono andato alla sede di Repubblica e sono stato ricevuto, una cosa impensabile oggi, da Saverio Tutino giornalista che si occupava di America Latina. Mi fece salire al quarto piano e lesse quello che gli sottoposi. Con fare fraterno mi disse “son cose però di 15 giorni fa”. Rimasi, naturalmente, molto deluso perché pensavo di avere qualcosa di buono tra le mani. Però Tutino mi spronò a continuare. Secondo lui ero portato per questo mestiere e voleva dare gli scritti al Manifesto, ma dissi no e tornai a casa. Mi mise la pulce nell’orecchio».
Un inizio quantomeno rocambolesco…
«Beh, oggi per un ragazzo sarebbe impensabile prendere e entrare così in una redazione di un giornale».
Ma con Tutino vi conoscevate?
«No, sono entrato così. Venivo dalla strada e non ero neanche vestito decentemente. È mancato qualche anno fa, ma gli sarò grato per tutta la vita».
Lei è riconosciuto anche per la sua militanza in Lotta Continua e per il suo lavoro con l’annessa rivista…
«Sono stato militante di LC e ho fatto volontariato. In pratica noi attivisti ci siamo messi a disposizione durante il terremoto del Friuli nel 1976, anno in cui Lotta Continua si è sciolta. Andavamo a prendere i giornali dalle messaggerie di Repubblica e del Corriere e li distribuivamo gratis nelle tendopoli. Comunque ho lasciato prima del congresso di scioglimento dell’organizzazione. Noi in Friuli, causa terremoto, vivevamo in una capsula del tempo. Il movimento del ‘77 non lo abbiamo neanche sentito».
Torniamo al giornalismo…
«Ho iniziato, come detto, proprio al giornale di Lotta Continua. Sono andato a Roma per lavorare e come primo articolo vero mi hanno chiesto di andare in Montenegro. Lì c’era appena stato il terremoto e mi hanno inviato in quanto terremotato. Ho detto “ok” e sono partito. La vicenda dell’America Latina mi era rimasta dentro e così ho chiesto di essere assegnato alla redazione degli esteri. Sono tornato in Nicaragua e ho raccontato la rivoluzione sandinista, ma già dopo un anno ho parlato della delusione di quella insurrezione. Sono stato a Miami per seguire i Contras e poi ho assistito all’esodo cubano. Ricordo i 17mila cubani che occuparono l’ambasciata peruviana, ci fu un esodo di massa. In quel periodo arrivano molte lettere al giornale per quello che scrivevo. Lettere, diciamo, di contestazione. Però ogni riga mi è stata pubblicata. Per dirla tutta non ero allineato alla linea del giornale».
Una libertà inaspettata di critica al “sogno” comunista…
«Tenga presente che quelle corrispondenze venivano ripresa da Montanelli su Il Giornale. Scriveva che “se anche Lotta Continua diceva così figuratevi cosa può essere successo davvero”».
Dopo?
«Reporter, Epoca e tre, quattro anni a Panorama. Ma da quest’ultimo me ne sono andato quando ha cessato di essere il Life italiano. Ho seguito le vicende dell’ndrangheta, ma quando mi hanno chiesto un pezzo sugli italiani che usano l’aereo privato ho capito che non era più il mio posto. Poi un gruppo editoriale tedesco voleva creare il vero Life italiano, ma dopo un mese che ero a Milano il tutto divenne un quindicinale femminile. Parliamo di Vera. Avevo un contratto a tempo indeterminato, ma del mondo della moda e degli accessori non sapevo niente. Così mi hanno messo a correggere le bozze della rivista, dovevo rendere i testi comprensibili anche al più ignorante dei lettori».
Un Capuozzo inedito…
«Ho fatto il primo numero e per fortuna Giuliano Ferrara mi ha chiamato per collaborare con lui a inizio degli anni ‘90. Un anno anche lì e poi è nato il Tg5. Mediaset aveva portato tutti i migliori inviati proprio sulla nuova piattaforma, così il Tg4 di Fede che all’epoca era l’unico telegiornale venne svuotato. Emilio Fede per ripicca disse “assumo io i migliori sul mercato, prendo quelli veramente bravi”. E mi propose di andare a lavorare con lui. Non volevo, però, lavorare in un telegiornale, preferivo il cartaceo per la possibilità di raccontare storie più lunghe».
E allora come c’è finito davanti alla telecamera?
«Chiesi una cifra che mi sembrava folle e mi dissero di sì. A quel punto non potevo più tirarmi indietro. Feci l’ultimo servizio da freelance in America, che rivendetti al Corriere della Sera – quasi rimettendoci perché spesi 4 milioni di lire incassandone 5 – sulle città che si chiamano Genova in onore del capoluogo ligure. Era il periodo del 500esimo anniversario della scoperta dell’America. Poi cominciai al Tg4».
Nel 1998 il Tg5…
«Lì ho seguito la vicenda dei Balcani. Nel 1999 ho assistito e testimoniato i bombardamenti oggi dimenticati da Mattarella».
La guerra appartiene alla storia dell’uomo eppure ci lascia sempre sbigottiti. Perché rimaniamo a bocca aperta davanti alla storia che continua il suo percorso?
«Vediamo solo i principi, siamo tutto chiacchiere e distintivo. Sarebbe bello se il diritto internazionale fosse una realtà costringente. Ma non è così, contano sempre i rapporti di forza. Pensiamo di aver costruito una società basata sull’irenismo. Questa idea della pace sovrana in cui la guerra non fa parte della storia dell’uomo è assurda. Esiste una sola facciata, la Seconda Guerra Mondiale che a mio avviso, per fortuna, è stata vinta dall’Occidente, si è conclusa con due bombe atomiche non su basi militari, ma sui civili. Oppure basta vedere cos’è successo a Dresda o ancora le violenze sessuali ai danni di migliaia di donne tedesche, perpetrate dai russi. Oggi per l’Ucraina si parla di un accordo di pace giusto, e io penso: è giusto che noi abbiamo perso l’Istria, la Dalmazia e Fiume? Spesso ce ne dimentichiamo. La guerra, come nel caso Russia-Ucraina e Israele-Palestina, andrebbe raccontata da entrambe le parti».
Il Friuli è terra di reporter pensiamo a lei, Biloslavo, Micalessin…
«Ma anche Demetrio Volcic e Gianni Bisiach. Il confine, no? Il confine è sempre irrequieto e poi ti spinge a curiosare su quello che c’è dall’altra parte. Volcic era specializzato nei Paesi dell’Est europeo, ma il tutto riguarda anche l’essere di Trieste che è forse la città più italiana esistente dal punto di vista dei sentimenti».
A proposito di triestini, lei è presidente onorario della giuria del Premio Grilz, l’onorificenza dedicata all’inviato caduto nel 1987 in Mozambico mentre svolgeva il suo lavoro di reporter. Vi conoscevate?
«No, ma potrebbe essere che abbiamo fatto a botte (ci dice sorridendo, ndr). Qualche volta mi sono scontrato per questioni politiche a Trieste. Grilz è morto con la telecamera in mano e tutto ciò è particolarmente simbolico. La ragione del mio impegno per Almerigo riguarda l’ingiustizia per il tentativo di cancellare la sua memoria. A lungo è stato ostracizzato e trattato come un morto di serie B. Quello che conta sono i fatti e lui è caduto raccontando il conflitto. Se fosse successo a me qualcuno avrebbe detto “eh, ma veniva da Lotta Continua”, anche se in un certo qual modo l’estremismo di sinistra è sempre stato tollerato. Ma non puoi guardare nelle tasche di chi è morto. Sono sicuro che se al fronte fossi caduto io Grilz sarebbe stato il primo a rendermi onore».
Chiudiamo con Berlusconi, qual è stato il suo rapporto con Silvio?
«A Mediaset sono riuscito a fare un giornalismo che non fosse di destra e neanche di sinistra, ma un giornalismo che provava a fare il giornalismo. Penso a Terra!, se scendevamo sotto il 10% di share era andata male. Con Berlusconi mi sono incontrato sempre e solo all’estero. Era intanto molto simpatico, aveva la capacità di non stare sul podio, faceva battute e raccontava barzellette. Un’attitudine innata di mettersi al tuo livello senza paternalismo».