Il libro
Maneggiare con cura: l’eresia libertaria di Hoppe in “Democrazia: il dio che ha fallito”
Si tratta di un testo controverso che rappresenta un attacco frontale a uno dei dogmi più intoccabili della modernità occidentale. Tuttavia, ricorda Raimondo Cubeddu nella prefazione, «il filosofo che non cercasse di andare oltre il proprio tempo non potrebbe seriamente rivendicare il diritto di definirsi tale»
L’opera di Hans-Hermann Hoppe va letta a prescindere, anche quando si fatica a masticare e digerire le sue tesi. Il monumentale Democrazia: il dio che ha fallito (Liberlibri edizioni, con prefazione di Raimondo Cubeddu e un saggio di Alessandro Fusillo) non fa eccezione alla regola; anzi, ne rappresenta una conferma evidente. L’economista e filosofo politico, nato nel 1949 a Peine, in Germania, e trasferitosi stabilmente negli Stati Uniti, possiede indubbiamente il dono dell’implacabilità: la capacità, cioè, di definire con nettezza i contorni di un’idea, isolandola da commistioni e scartavetrando deviazioni storiche e narrative eccessivamente edulcorate.
Considerato uno dei più lucidi esponenti viventi del libertarismo radicale, Hoppe viene spesso sbrigativamente collocato, secondo la vulgata corrente, nell’alveo dell’anarco-capitalismo. Una definizione che può far accapponare la pelle, ma con la quale è inevitabile confrontarsi, soprattutto nell’attuale fase storico-politica globale, segnata da una profonda entropia istituzionale e culturale. Ciò che conta, tuttavia, è evitare accostamenti superficiali e fuorvianti: in particolare, le connessioni tra Hoppe e i cosiddetti “titani del tech”, ipotesi che Andrea Venanzoni liquida efficacemente come puro «dadaismo interpretativo».
Il saggio sulla democrazia è senza dubbio un libro controverso, difficile e al tempo stesso sconvolgente. Sin dalla sua prima edizione americana del 2001 ha suscitato sconcerto su entrambe le sponde dell’Atlantico, poiché ha messo radicalmente in discussione i fondamenti teorici e gli esiti concreti dei moderni sistemi politici occidentali. Tanto da arrivare a rivalutare l’istituto della monarchia medievale e a difenderlo, criticando al contempo la dottrina del presidente americano Woodrow Wilson, accusata di aver esportato gli interessi statunitensi in Europa non senza conseguenze storiche decisive. Idee tutt’altro che innocenti, vere e proprie pugnalate al cuore tanto per i democratici quanto per i liberali di ieri e di oggi.
Secondo Hoppe, la democrazia si è trasformata in un dio laico, al quale vengono progressivamente sacrificate le libertà individuali. L’ideologia democratica, sostiene l’economista tedesco, funziona come una gabbia mentale e sociale, capace di escludere ogni alternativa a sé stessa e di delegittimare qualsiasi forma di critica strutturale. Non solo: la democrazia viene definita un sistema «immorale e antieconomico», intrinsecamente incapace di generare prosperità duratura, poiché fondato su incentivi perversi, sull’erosione della proprietà privata attraverso la tassazione e su una sistematica preferenza per il breve termine.
In questo senso, Democrazia: il dio che ha fallito non è soltanto una critica politica, ma un attacco frontale a uno dei dogmi più intoccabili della modernità occidentale, un libro che costringe il lettore – anche quello più ostile – a confrontarsi con interrogativi radicali sul rapporto tra potere, libertà e ordine sociale.
Una ripubblicazione coraggiosa e necessaria, da maneggiare tuttavia con cura. Un testo probabilmente urgente. A certificarlo è il politologo e studioso del pensiero liberale Raimondo Cubeddu, che nella prefazione alla recente edizione italiana scrive: «Il libro di Hoppe, anche se non può certo fornire risposte definitive, ha l’indubbio merito di avviare una riflessione perché inizia a porre seriamente la questione se si possa fare a meno dello Stato, del potere e della politica, e di come sostituirli». Una questione enorme, che può anche fare paura, perché segna un innegabile salto nel vuoto che in molti non sono disposti a compiere. Tuttavia, è lo stesso Cubeddu a ricordare come «il filosofo che non cercasse di andare oltre il proprio tempo non potrebbe seriamente rivendicare il diritto di definirsi tale, né quello di essere preso in considerazione».