Una rinascita
Abel Ferrara si confessa: dopo 40 anni di alcool e droga, amici fantasma e amori finiti, in Italia sono rinato, nel corpo e nello spirito
Dopo decenni vissuti all'insegna dell'autodistruzione, della paranoia, di affetti scomparsi e donne che lo hanno lasciato, il regista parla della svolta personale e professionale che lo ha riportato a vivere: "Mi ci sono voluti 61 anni per capirlo: quello in cui mi rifugiavo non era un elisir, ma un'illusione"
Il cinema ruvido, estremo e spesso autodistruttivo di Abel Ferrara trova un epilogo inatteso e commovente nella vita reale: la rinascita in Italia. Il regista culto di pellicole come King of New York e The Bad Lieutenant, noto per la sua battaglia decennale contro dipendenze devastanti, si confida in un’intervista a Repubblica in occasione dell’uscita della sua autobiografia, Scene, un flusso di coscienza che non nasconde gli abissi attraversati.
Abel Ferrara si confessa: dopo decenni di droghe in Italia sono rinato nel corpo e nello spirito
ùIl titolo dell’intervista, che emblematicamente recita: “Le droghe mi hanno avvelenato, in Italia sono rinato”, riassume l’esperienza catartica di Ferrara. Il regista italo-americano, originario di Sarno, attribuisce la sua sopravvivenza non solo a una «buona genetica» ereditata dal nonno, ma soprattutto alla scelta radicale di smettere di “avvelenarsi”. Il memoir è un viaggio crudo attraverso quarant’anni di eccessi: punteggiati da cocaina, crack, arresti e ricadute. Ma culmina nella pace ritrovata tra Napoli e Caserta, dove ha riscoperto la fede.
Ferrara riflette con lucidità sul tempo perduto («Mi ci sono voluti 61 anni per capire che droghe e alcol non erano un elisir ma un’illusione») e sulla sua sopravvivenza rispetto ad altri compagni di viaggio – da Chris Penn ad altre figure iconiche del suo cinema – che invece non ce l’hanno fatta, sostenendo che «loro vivono nei film. È la bellezza dell’arte». Non solo: in questo suo percorso di rinnovamento del corpo e dello spirito, il regista lega la sua rinnovata spiritualità al binomio che unisce Cattolicesimo delle sue radici a Buddismo, evidenziando come la fede lo abbia strappato dall’egocentrismo tipico della dipendenza, per ricordargli che la sofferenza, pur esistendo, non è la condizione naturale dell’uomo.
E allora. «Non è che io sia così forte – si confessa il cineasta americano nell’intervista –. La differenza arriva quando uno smette di avvelenarsi. Ho ereditato buoni geni: mio nonno, lato italiano, è vissuto fino a 96 anni. Veniva da Sarno, portò in America la sua cultura e il suo cibo. Se smetti di avvelenarti ti dai una possibilità di essere vivo», afferma convintamente Abel Ferrara, intervistato da Repubblica, in occasione dell’uscita, da domani con La nave di Teseo, di Scene: 250 pagine di autobiografia.
Un flusso ruvido e frammentato, fatto di notti di cocaina e crack, arresti, set estremi, fughe, ricadute infinite. Tra bestemmie, visioni e lampi di tenerezza, il memoriale del regista attraversa 40 anni di autodistruzione e di cinema popolati da fantasmi e compagni di viaggio: Chris Penn e suo fratello Sean, Willem Dafoe e Christopher Walken, Asia Argento e Madonna, le donne amate e perdute, il dolore di una dipendenza che lo ha segnato per decenni. E poi la pace trovata tra Napoli e Caserta: ha smesso di drogarsi e riscoperto la fede.
«Scrivere ti fa vedere le cose con lucidità. Ho iniziato dai momenti più vicini – racconta il regista 74enne di King of New York – e sono andato indietro, affrontando me stesso, cercando la verità dei ricordi. Viviamo nel presente, ma il passato è con noi». E ancora: «Spesso mi chiedo: perché io sono sopravvissuto, mentre altri no? Volevo distruggermi ma ho avuto fortuna: non mi sono ammalato. Non mi hanno sparato. Neppure ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Loro vivono nei film. È la bellezza dell’arte. Il rimpianto è che la soluzione era lì, ma non la vedevo. Mi ci sono voluti 61 anni per capire che droghe e alcol non erano un elisir ma un’illusione».
