
Il delitto nel Bresciano
Ha ucciso il marito violento con 33 coltellate: pena ridotta in appello a Raffaella Ragnoli
Si sono stretti in un abbraccio lungo, silenzioso, come chi tenta di afferrare un frammento di sollievo dopo mesi di attesa. Riccardo e Romina, i figli di Raffaella Ragnoli, erano in aula quando la Corte d’assise d’appello di Brescia ha pronunciato la sentenza: ergastolo annullato, condanna ridotta a diciotto anni di reclusione.
Il caso Ragnoli, la tragedia in provincia di Brescia
È la conclusione di una vicenda che aveva segnato il paese di Nuvolento nel gennaio del 2023, quando Romano Fagoni — 59 anni, muratore — fu ucciso con trentatré coltellate dalla moglie, mentre erano a tavola, sotto gli occhi del figlio quindicenne. Una sera d’inverno, una lite che degenerò in tragedia.
“Non è un omicidio da ergastolo”
Il presidente Eliana Genovese ha letto la sentenza accogliendo la richiesta di concordato avanzata dalla difesa, con il consenso del sostituto procuratore generale Domenico Chiaro. «Non è un omicidio da ergastolo» ha dichiarato il magistrato in aula, chiedendo il riconoscimento delle attenuanti generiche, prevalenti sull’aggravante del vincolo coniugale.
Per Chiaro, la donna visse a lungo in un contesto familiare minato da tensioni, umiliazioni e maltrattamenti psicologici. «Le sentenze devono essere conformi alla giustizia» ha aggiunto, sottolineando i “fattori stressogeni” che, da tempo, pesavano sulla vita della Ragnoli.
Alla base del concordato, gli avvocati Anna Maria De Mattei e Tommy Bettanini hanno rinunciato ai motivi d’appello che invocavano la legittima difesa e lo stato d’ira, chiedendo invece il riconoscimento della fragilità psico-fisica dell’imputata, aggravata da anni di paura e da una minaccia immediata nei confronti del figlio minore.
Una sera di gennaio, trentatré fendenti
Il delitto avvenne la sera del 28 gennaio 2023. Raffaella, ex impiegata cinquanovenne, impugnò il fendente e colpì il marito che, stando alle ricostruzioni, poco prima avrebbe puntato un altro coltello alla gola del figlio. «Temevo che stavolta gli avrebbe fatto del male» disse la donna ai carabinieri. Poi, in aula, ammise di aver “forse esagerato”, travolta da una situazione diventata insostenibile.
Fu il figlio, allora, a chiamare i soccorsi tra le urla. Una registrazione di quei momenti — la lite, il frastuono, il pianto disperato — fu acquisita agli atti. Ma per il pg Chiaro «non è processualmente provato che l’avesse fatta volontariamente».
“Almeno i miei figli sono vivi”
Nelle ore successive al delitto, Raffaella Ragnoli ripeté più volte: «Non mi importa di andare in prigione, almeno i miei figli sono vivi». Una frase rimasta impressa agli inquirenti, che oggi, dopo quasi due anni di carcere a Verziano, assume il peso di una confessione dolorosa più che di una giustificazione.
“Una conclusione dolce-amara”
Dopo la lettura del verdetto, fuori dall’aula, i figli non hanno voluto parlare. «Dobbiamo ancora pensare…» ha detto Romina. Solo in serata, in un post sul gruppo “No al fine pena mai per Raffaella Ragnoli”, la figlia ha affidato alla rete un pensiero lucido: «È una conclusione dolce-amara. Dolce perché la pena è stata riformata, e questo significa non solo speranza per il futuro, ma anche riconoscere quanto questa vicenda sia stata giudicata sommariamente. Amara, perché gli anni che ci separano sono ancora molti, e perché non sono state comprovate le violenze: il mio cuore, i miei occhi e la mia mente le hanno vividamente presenti. Giusto o sbagliato, non lo devo dire io, è finita».
Ha prevalso il giustizialismo
«Ha prevalso il senso di giustizia» commentano i legali della donna. «Non ha fatto differenza che l’imputata sia una donna. Ci abbiamo creduto fin dall’inizio: oggi la signora ha un’aspettativa fuori dal carcere che con l’ergastolo non avrebbe avuto».