Addio a Tadzio
È morto Björn Andrésen, il ragazzo più bello (e triste) del mondo che ispirò Visconti e diede il volto a Lady Oscar
Addio all'attore e musicista svedese la cui bellezza folgorante nel ruolo dell'angelo biondo e inquietante in Morte a Venezia si trasformò in una maledizione personale che ne segnò l'intera esistenza (e carriera)
Forse la sua fortuna, e la sua condanna, è stata proprio la sua bellezza. Troppo bello per questa vita, troppo inquieto per continuare a viverla, si è spento a 70 anni Björn Andrésen, il giovanissimo Tadzio del film Morte a Venezia. Il volto efebico e lo sguardo angelico che ispirarono Visconti per uno dei suoi indiscussi capolavori. E che con quel ruolo segnò la vita e la carriera di un giovane attore e musicista svedese alle prese con un primato e un ruolo più grandi di lui, morto sabato 25 ottobre lasciando un segno indelebile nel cinema, tra la leggenda della sua eterea bellezza, e le sfide di un’esistenza segnata da un’adolescenza strappata alla normalità. La notizia della scomparsa è stata diffusa dal regista Kristian Petri al quotidiano svedese “Dagens Nyheter”. Le cause del decesso, però, non sono state rese note.
È morto Bjorn Andrésen, “il ragazzo più bello del mondo”, il Tadzio di “Morte a Venezia”
Volto efebico, scelto da Luchino Visconti in Morte a Venezia (1971), Björn Andrésen divenne il simbolo in carne, ossa e sguardo, di una bellezza assoluta. E, allo stesso tempo, l’emblema di una condanna a vivere un’esistenza inquieta e tormentata. Per il cinema fu “il ragazzo più bello del mondo”. Per l’immaginario collettivo, e da subito, il riflesso sbiadito allo specchio di un uomo la cui vita sarebbe stata inestricabilmente legata a un’unica, folgorante immagine giovanile: quella del giovane polacco biondo come il grano. Ipnotico e quasi irreale, che folgora di un amore ossessivo il maturo compositore Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde).
Aveva 70 anni. Era il volto efebico del capolavoro di Luchino Visconti
La ricerca di Visconti per il ruolo di Tadzio fu maniacale. Una vera e propria ossessione registica, quella del maestro, per trovare il volto che rispecchiasse la descrizione del romanzo di Thomas Mann. Lineamenti che ricordassero le statue dell’antica Grecia. E quel quid di tormento e estasi inestricabilmente legato, fin nei gangli connettivali, in un’unica creatura, bella e dannata. Il regista, come si vede anche nel documentario del 2021 a lui dedicato, Il ragazzo più bello del mondo, selezionò una lista infinita di candidati. Scartando candidati “carini, bellini”. E in cerca di quel “quid”, di quel colpo al cuore, che sarebbero scattati solo a Stoccolma, nel febbraio del 1970, in un quindicenne che già manifestava un dolore nascosto nei suoi magnetici occhi grigi.
La ricerca della bellezza assoluta in quel quid che solo Tadzio poteva possedere
La ricerca poteva dirsi conclusa. Al provino, Visconti fu così folgorato, ponendo fine alla sua ricerca globale. Poi, alla prima del film, nel 1971 al Festival di Cannes, il regista lo definì ufficialmente: «Il ragazzo più bello del mondo», affibbiandogli inconsapevolmente un’etichetta che da benedizione si tramutò subito in una pesante maledizione. Segnando ogni scelta. Ogni passo. E ogni sofferenza successiva di Andrésen. «Quando si posano gli occhi sulla bellezza è come posarli sulla morte», dirà Visconti, non a caso, molti anni dopo quel successo cinematografico e quella scoperta attoriale, in una frase che si rivelerà profetica per il destino del suo giovane attore.
La maledizione di Tadzio, l’angelo di “Morte a Venezia”
E in effetti, l’esperienza sul set, nonostante l’imposizione di Visconti ai suoi collaboratori di non guardare o parlare troppo con il ragazzo per proteggerlo, si rivelò traumatica per quel giovane attore alle prime armi. Andrésen, cresciuto con i nonni dopo che la madre (modella, artista e scrittrice) si tolse la vita quando lui aveva dieci anni, si sentì esposto e strumentalizzato. Negli anni raccontò il profondo disagio, affermando per esempio al quotidiano inglese The Guardian nel 2003, di essersi sentito «come un animale esotico in gabbia» e accusando Visconti di non essersi mai curato dei suoi sentimenti. Poi, per scrollarsi di dosso l’immagine sessualizzata di Tadzio, evitò per il resto della carriera ruoli che alludessero all’omosessualità o che puntassero solo sul suo aspetto, persino dopo la morte del regista nel 1976.
Il Tadzio di “Morte a Venezia” di Visconti, una bellezza inquieta, un’esistenza tormentata
Non solo. Desideroso di smentire le voci sulla sua presunta omosessualità. E di scrollarsi di dosso l’immagine di “bel ragazzo”, Andrésen evitò per il resto della sua vita ruoli omosessuali, o parti che riteneva puntassero esclusivamente sul suo aspetto fisico. Si indignò inoltre quando la scrittrice femminista Germaine Greer utilizzò una sua fotografia per la copertina del libro Il ragazzo (2003), senza averne richiesto il permesso. Tutti germi di un malessere insorto troppo presto. E che non lo avrebbe mai abbandonato.
L’idolo planetario, il volto di anime e manga giapponesi, e la maternità di Lady Oscar
Mai: neppure nonostante i tentativi di allontanarsi dal cinema per la sua vera passione, la musica – fu pianista e compositore –. Eppure, nonostante tristezza e alterne fortune, il volto di Björn conobbe una seconda vita di culto in Giappone. Quando Morte a Venezia uscì in Asia, Andrésen divenne un idolo pop planetario. Viaggiò a Tokyo, dove incise dischi in giapponese. Si esibì e fu accolto da fan armati di forbici in cerca di una ciocca dei suoi capelli color grano.
Una fama transcontinentale inaspettata per lui, che diede vita a un fenomeno culturale inatteso: la disegnatrice di manga Riyoko Ikeda fu così folgorata dal suo viso efebico da usarlo come modello per creare l’estetica androgina di Lady Oscar. E anche di più: inconsapevolmente, Björn Andrésen plasmò l’iconografia di innumerevoli protagonisti maschili degli anime e dei fumetti giapponesi.
Il peso di una vita segnata
A dispetto di una fama che oltrepassava sempre più incredibilmente i confini dell’ovvio, la vita privata di Andrésen fu segnata da tragedie che alimentarono il dolore sotteso a quegli occhi magnetici. Oltre al suicidio della madre, e all’assenza del padre, l’attore perse il figlio Elvin a soli nove mesi per la sindrome della morte improvvisa del lattante. Un lutto che lo segnò profondamente e di cui non si perdonò mai completamente. Nonostante la nascita della figlia Robine, avuta con la poetessa Susanna Roman.
I drammi di Andrésen, la perdita della madre, l’assenza del padre, la morte del figlio
Il documentario del 2021, diretto da Kristian Petri (che lo conosceva da decenni), ha riacceso i riflettori sulla sua fragilità e resilienza, vincendo premi e offrendo al pubblico il ritratto di un uomo invecchiato, che cercava ancora di scoprire l’identità del padre. E, in fondo, anche la sua. La sua parabola, fatta di bellezza folgorante e profonda infelicità, resta la testimonianza di quanto possa essere crudele l’impatto di un’ossessione estetica sul destino di un ragazzo.
