
L'Occidente è morto
Ucciso per le sue idee, infangato anche da morto: Kirk trasformato in colpevole dalla sinistra mainstream
Tra di loro c'è anche Saviano che accosta l’assassinio all’incendio del Reichstag del 1933, agitando lo spettro di una nuova dittatura alle porte. “Hitler sfruttò quell’episodio per proclamare lo stato di emergenza, sospendere i diritti fondamentali e mettere a tacere gli oppositori politici: fu il pretesto che aprì la strada al regime nazista"
Ieri, è morto Charlie Kirk. Un padre, un marito, un giovane repubblicano con una voce. E per qualcuno non è abbastanza. Perché in una società che ha smesso di distinguere l’uomo dall’etichetta, nemmeno la morte basta più a riconoscere l’umanità. Si può morire sul palco, davanti a studenti universitari, colpiti al collo in pieno giorno, e finire comunque classificati come “estremisti”. O peggio: come “colpevoli”. Non di un reato, ma di una posizione politica.
Kirk non era un terrorista, non era un guerrigliero, non era un predicatore d’odio. Era un conservatore. E tanto è bastato.
Quando il silenzio è più grave del delitto
Per il presidente americano Donald Trump, Kirk «è stato ucciso dalla retorica della sinistra radicale», quella che «per anni ha paragonato meravigliosi americani come Charlie ai nazisti o ai peggiori criminali e assassini di massa del mondo». Parole che colpiscono nel segno.
Perché mentre milioni di cittadini partecipavano al dolore, altrove si scrollavano le spalle. O peggio.
Il cortocircuito tra i dem americani
Bernie Sanders, per una volta, ha fatto ciò che ci si aspetta da ogni politico: «La violenza politica non ha posto in questo Paese. Dobbiamo condannare questo attacco orribile. I miei pensieri vanno a Charlie Kirk e alla sua famiglia». Ma bastano venti parole di decenza per smascherare un’intera “cultura”, se così si può chiamare. Tra i suoi sostenitori dem, la reazione è stata rabbiosa: «Questo non è politico. Non era un politici», «È accaduto lo stesso a migliaia di gazawi e Charlie applaudiva», «Non avevi bisogno di scrivere questo post», «Oh Bernie dai, sii serio». L’abisso non è solo morale, ma antropologico.
In Italia, la sinistra si supera
Alan Friedman, giornalista e opinionista, direttamente dall’Italia ha scritto e poi cancellato un commento al vetriolo: «Charlie Kirk, il propagandista Maga ucciso ieri, era un amico di Trump. Sostenne la violenza del 6 gennaio 2021. Disse che le donne nere non avevano diritto al lavoro, che i gay andavano uccisi, e fece propaganda pro-Putin. La violenza in America cresce grazie a gente come lui». Nessuna fonte, nessun contesto, nessuna decenza. Solo una sequenza di accuse funzionali a una logica spietata: disumanizzare il morto per non dover piangere la sua morte.
All’appello poi, non può mancare Roberto Saviano. «Il suo assassinio rischia di diventare, per Trump, l’‘incendio del Reichstag del 1933’: non solo la fine di una vita, ma la miccia per una trasformazione radicale dell’equilibrio politico e sociale». E la racconta tutta, paragonando Trump al Führer: «Hitler sfruttò quell’episodio per proclamare lo stato di emergenza, sospendere diritti fondamentali e mettere a tacere gli oppositori politici. Fu il pretesto che spianò la strada alla dittatura nazista».
I media mainstream
Tgcom24: «Chi era il 31enne sostenitore di Trump: dal negazionismo climatico alla propaganda anti-Covid». Tg La7: «Trump nel suo discorso sull’omicidio d Kirk dimentica Melissa Hortman: chi è e perché l’ondata di critiche sui social». Il Fatto Quotidiano ha aperto con «Chi era l’estremista di destra assassinato» salvo correggere, troppo tardi, in «attivista». Ma il danno, come sempre, segue il titolo.
Il Manifesto non si è smentito
E sui social? C’è chi non si vergogna più nemmeno di dire, con fare da moralista da cortile: «La solidarietà lasciamola agli innocenti che muoiono nel silenzio generale, non a chi ha contribuito a rafforzare la giungla delle armi». Dimenticando che la giungla, ormai, è quella dei loro pensieri.
Il metodo: minimizzare, confondere, insinuare
Un commentatore Msnbc ha persino ipotizzato che l’assalitore potesse essere «un sostenitore che ha fatto partire un colpo in segno di celebrazione». Non è una battuta da bar, è un’analisi televisiva. E rappresenta plasticamente la degenerazione del dibattito occidentale: non si cerca la verità, si cerca un alibi.
Dopo l’omicidio di Brian Thompson da parte di Luigi Mangione, molti adottarono lo stesso schema: la vittima era colpevole di essere un Ceo. Oggi Kirk paga la stessa colpa: quella di essere un conservatore. Di aver parlato. Di aver osato aprire al dibattito.
Cosa resta?
Un uomo colpito a morte. Un assassino ancora in fuga. Una stampa incapace di nominare il fatto senza accompagnarlo a giudizi politici. Un pezzo d’Occidente che esulta, commenta, minimizza, discolpa. E, soprattutto, si assolve.
Ma l’omicidio di Charlie Kirk non è solo un episodio. È un segnale. Si è ormai oltrepassata la linea rossa Un segnale sinistro di quello che può accadere quando le democrazie liberali smettono incitano alla violenza verso una parte politica. Quando gli atenei diventano trincee ideologiche e non luoghi di dialogo. Quando il giornalismo diventa propaganda.
Il prezzo dell’odio legittimato
Non si può predicare la tolleranza a senso unico. Non si può combattere l’intolleranza evocando nemici da annientare. E non si può giustificare la violenza con la retorica delle “responsabilità morali”. Se chi muore, oggi, viene giudicato in base a ciò che pensava, allora la libertà è già finita. Charlie Kirk voleva salvare l’America. È stato ucciso da chi vuole ancora distruggerla.
E se non si reagisce, domani toccherà a un altro. Non perché abbia torto. Ma perché non ha il permesso di avere ragione.