
Il grande stilista
Quel primato dell’Italia sulla bellezza che Armani ha saputo imporre con eleganza
Armani non è stato un creativo tra gli altri. Era un campione di stile, certamente. Ma anche un lavoratore infaticabile, attento ai dettagli e al risultato. Ingredienti tipicamente lombardi che hanno fatto la differenza a livello planetario
Una modella distesa sulla scalinata di Trinità dei Monti e vestita con abiti dai colori inequivocabili: il verde, il bianco e il rosso. Un’immagine iconica, ripetuta più volte, che segna un’epoca attenta al piacere: gli anni Ottanta, i Novanta e i Duemila. Piazza di Spagna, Roma: la posa è studiata per scolpire nell’immaginario globale un messaggio che non ammette fraintendimenti. Ovvero: la superiorità della moda made in Italy, il primato italico sulla bellezza. Armani è stato uno dei protagonisti assoluti di una stagione che vede ancora la creatività nostrana lassù, ai vertici.
«Re Giorgio» è andato via mentre il mondo pensava che uno come lui sarebbe rimasto per sempre. Fu la stampa britannica a definirlo così. E se detto da loro – maestri di stile – qualcosa vorrà pur significare. Un trono condiviso con gli altri campioni di un movimento inarrestabile: Valentino, Gianni e Donatella Versace, Gianfranco Ferré, Dolce&Gabbana. E Moschino, che ha trasformato l’uso del Tricolore in passerella in un marchio d’orgoglio. Per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia anche Laura Biagiotti e Rocco Barocco hanno così onorato il Belpaese. Ambasciatori, tutti, di una nazione che trova la sua identità specifica nella saldatura tra qualità e creatività. No, non è la solita retorica: perché la convergenza è anche nel cibo, nel design, nell’architettura, nel prodotto manifatturiero, nelle arti grafiche, passando dall’eleganza del vestiario. Sono poche le nazioni che possono disporre di un armamentario così articolato, capace di alimentare narrazioni tanto efficaci insieme ad ampie fette di pil. Anzi, si potrebbe forse dire che non ce ne sono affatto. Sarà. Non è il momento, però, di aprire l’ennesima disputa con i cugini d’Oltralpe. Non ora.
L’uscita di scena di Armani merita di essere celebrata con tutti gli onori possibili. E giustamente, pure. Dalle istituzioni, prima di tutto. «Simbolo del genio italiano nel mondo» ha sottolineato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Lo stile non è forma, ma è sostanza» ha detto la premier Giorgia Meloni spiegando al Corriere perché ha voluto giurare nelle mani del capo dello Stato indossando un tailleur scuro firmato dallo stilista piacentino. «Blu è il colore della forma. Non quello di Prussia, bensì di Pantelleria» dice Pietrangelo Buttafuoco ricordandoci che «nell’andarsene da questo mondo ci lascia questa tintura tutta di mare, roccia e cielo».
Armani non è stato un creativo tra gli altri. Era un campione di stile, certamente. Ma anche un lavoratore infaticabile, attento ai dettagli e al risultato. Ingredienti tipicamente lombardi che hanno fatto la differenza a livello planetario. Del resto, tutti i grandi interpreti dell’Italian style si sono rotti letteralmente la schiena per dar forma alle loro intuizioni e produrre occupazione. Da Emilio Pucci alle sorelle Fontana; da Ottavio Missoni a Elio Fiorucci. Armani non si faceva alcun problema a verificare – occhi azzurri e viso austero – anche con i facchini (sì, gli ultimissimi nella catena di montaggio di una sfilata) la praticabilità delle sue idee. Sono i testimoni a raccontarlo. Sarà anche per questo che, nella camera ardente, ha voluto che i suoi dipendenti avessero la precedenza sui vip. Una scelta di coerenza inevitabile per chi non ha voluto delocalizzare e ha preferito pagare le tasse in patria. Anche questa è eleganza. E rende grande lui e l’Italia.