
L'esempio Meloni
Gaza, dal delirio atomico di Sánchez alle fughe in avanti di Francia e Gb: l’Italia è l’unica a parlare il linguaggio della ragione
Di fronte alla polveriera mediorientale, il governo Meloni è uno dei pochi a non rincorrere gli slogan né a inginocchiarsi agli isterismi di piazza. Con l'Europa, Roma prova a cercare l’equilibrio, altri alzano solo la voce
La guerra che Israele conduce dal 7 ottobre 2023 contro Hamas – sproporzionata nelle conseguenze, inevitabile nelle premesse – ha frantumato gli equilibri della politica europea. L’attacco che ha minacciato l’esistenza stessa dello Stato ebraico ha imposto agli alleati di sempre una domanda cruciale: come difendere Israele senza negare il dramma dei civili di Gaza, come sostenere i palestinesi innocenti senza aprire la strada al terrorismo, come condannare Netanyahu senza scivolare nell’antisemitismo, come invocare la pace senza cancellare la verità sugli ostaggi e sulle responsabilità di Hamas?
Una Spagna intollerante
La maggior parte dei governi non ha retto lo stress test. La Spagna è il caso più clamoroso. Il premier Pedro Sánchez non solo ha deciso di sposare la causa palestinese cancellando Hamas dal discorso pubblico, ma si è trasformato in megafono delle piazze più violente, alimentando un clima interno che rischia di legittimare la caccia all’ebreo. Come se non bastasse, il leader socialista si è persino rammaricato di non avere una bomba atomica per fermare Israele. Un linguaggio indecente, che in qualsiasi altro contesto avrebbe provocato tempeste diplomatiche. Invece a Madrid lo si archivia come sfogo politico, a conferma di una sinistra che strumentalizza la tragedia per guadagnare consenso interno mentre gli scandali di corruzione la travolgono.
Le fughe in avanti di Francia e Regno Unito
Non meno discutibili le scelte di altri governi. Il Regno Unito ha optato per il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese senza pretendere il disarmo dei miliziani. La Francia di Macron ha scelto lo scontro frontale con Netanyahu, trasformando il conflitto in un duello politico. Belgio e Irlanda hanno votato testi all’Onu che mettono in croce Israele. Tutto, pur di non affrontare il nodo vero: l’esistenza di un terrorismo che non vuole la pace ma la cancellazione del popolo ebraico.
Anche a Bruxelles, non si è fatto tanto di meglio. Mentre la guerra arriva nelle sue ultime fasi, qualcuno tra i grigi burocrati si sveglia e chiama alle sanzioni: sospensioni commerciali, dazi mirati, congelamento di fondi bilaterali. Misure pensate più per placare l’opinione pubblica che per mutare la realtà del conflitto
L’eccezione italiana
In questo contesto, è l’Italia guidata da Giorgia Meloni a distinguersi. Nessuna ambiguità nel riconoscere gli aggressori, nessuna demonizzazione dello Stato ebraico, nessuna indulgenza verso Hamas. Solidarietà concreta al popolo palestinese, ma senza trasformarlo in strumento contro Israele né in pretesto per operazioni mediatiche – come accaduto nel caso della Flottilla. Al tempo stesso, nessun silenzio sugli errori del governo Netanyahu, ma con la ferma consapevolezza che il diritto di Israele a difendersi non è negoziabile. Chiara anche la denuncia dell’Iran, regista occulto dell’instabilità in Medio Oriente. Una posizione rara, insomma, che dovrebbe far rinsavire quella sinistra sempre pronta a puntare il dito sugli altri ma incapace di guardarsi allo specchio.
La paralisi europea
Questo mercoledì la Commissione Ue presenterà il pacchetto per sospendere i termini preferenziali e colpire i ministri israeliani definiti “estremisti”. Ursula von der Leyen è sotto pressione. Kaja Kallas ha annunciato dazi su oltre un terzo del commercio Ue-Israele, ricordando che nel 2023 valeva 42,6 miliardi di euro. «Sicuramente questo passo avrà un costo elevato per Israele», ha detto a Euronews.
Eppure, senza Berlino e Roma, nulla passerà. La Germania di Merz – che ha già bloccato l’esportazione di tutte le armi tedesche che avrebbero potuto essere utilizzate da Israele – non intende assecondare però l’idea di un embargo commerciale. «In politica e nella società, per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi sul fatto che un numero considerevole delle persone arrivate in Germania negli ultimi decenni provenga da Paesi in cui l’antisemitismo è praticamente dottrina di Stato», ha dichiarato il cancelliere a Monaco, in una sinagoga, trattenendo le lacrime.
Italia, Polonia, Ungheria e Austria hanno già detto no alle misure punitive. Senza di loro, l’Unione resta paralizzata. Von der Leyen lo ha ammesso: «Tutto è bloccato senza una maggioranza».