
L'ultimo atto
Gaza brucia: 400mila sfollati in fuga, raid all’alba e Netanyahu stretto tra Trump e le famiglie degli ostaggi
L’esercito israeliano ha annunciato l'apertura del valico di Salah al-Din per 48 ore. Il premier israeliano dice: "I gazawi stanno rispondendo a noi, non a Hamas, che spara anche contro di loro per impedirgli di andarsene". A Gerusalemme sale la tensione per gli ostaggi
Mentre l’esercito israeliano intensifica l’offensiva su Gaza City, l’Idf ha reso pubblica questa mattina l’apertura di una seconda via di evacuazione lungo Salah al-Din Street: il tratto sarà percorribile «dalle ore 12 di oggi fino alle ore 12 di venerdì», ha annunciato in arabo il portavoce militare Avichay Adraee sul suo account X. La misura, pensata per alleggerire la congestionata strada costiera Rashid, segue giorni di flussi ininterrotti di persone in fuga verso il sud della Striscia.
A Gaza, in 400 mila in fuga
Secondo una nuova stima dell’esercito, circa 400.000 palestinesi hanno già abbandonato la metropoli; prima dell’avvio della preparazione dell’operazione “Carri di Gedeone 2” si stimavano quasi un milione di residenti. L’evacuazione — che l’Idf calcola in decine di migliaia al giorno — convive con stime più contenute fornite dall’Onu, ma sul terreno la pressione demografica è evidente, con colonne di famiglie e convogli diretti verso un sud sempre più sovraffollato.
Raid notturni e vittime civili
Nella notte e nelle prime ore del mattino, fonti mediatiche di Gaza — alcune vicine ad Hamas — hanno riferito di bombardamenti persistenti: raid aerei, artiglieria e l’esplosione di veicoli senza pilota imbottiti di esplosivo nei quartieri di Tel al-Hawa e nelle aree nord-occidentali della città. Le notizie di morti e feriti filtrano dalle strutture sanitarie locali; le agenzie palestinesi parlano di almeno diciassette vittime dall’alba, tra cui famiglie colpite in tende per sfollati a Khan Yunis e in case dei campi profughi centrali.
Netanyahu e la nuova Sparta
A Gerusalemme, la crisi sul fronte estero si intreccia alla politica interna. Il premier Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump lo inviterà alla Casa Bianca entro fine mese — una visita che lo stesso Bibi ha collocato al 29 settembre, tre giorni prima del suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dove incombe il voto per il riconoscimento dello Stato di Palestina — e ha posto l’accento sulla necessità di accelerare le evacuazioni. «In questo momento [i gazawi] stanno lasciando Gaza City», ha detto, aggiungendo poi che «vogliono andarsene, vogliono uscire dalla città, perché vogliono — stanno rispondendo a noi, non a Hamas, che, tra l’altro, talvolta spara anche contro di loro per impedirglielo».
Il primo ministro ha inoltre lanciato un monito diretto alle milizie terroriste: «Se faranno del male anche solo a un capello di uno degli ostaggi, li braccheremo con una forza ancora maggiore fino alla fine della loro vita — e quella fine arriverà molto più in fretta di quanto pensino». Le famiglie degli ostaggi, intanto, restano in stato di angoscia per la sorte dei loro cari, preoccupate dal fatto che Hamas possa trattenerli nella stessa area oggetto dell’offensiva.
Proteste interne
La polizia israeliana ha infatti disperso con forza un accampamento di protesta davanti alla residenza di Netanyahu, dove si erano radunate anche famiglie degli ostaggi. I manifestanti sono stati allontanati durante scontri con le forze dell’ordine; la manovra ha scatenato critiche da parte di sigle e figure politiche che hanno denunciato un uso eccessivo della forza contro persone che chiedevano risposte sulla sorte dei propri congiunti.
Diplomazia e strategie regionali
Sul piano delle alleanze emerge un quadro complesso: il segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha espresso sostegno a Israele, definendo come «esito ideale» la resa di Hamas, pur non nascondendo la possibilità che «potrebbe essere necessaria un’operazione militare rapida per eliminarli». Netanyahu, dal canto suo, ha difeso l’operato dell’esecutivo e dell’esercito, attribuendo a fughe di notizie «false» e a briefing «di parte» l’erosione del consenso interno e il danneggiamento degli sforzi bellici.
Fronti esterni e accuse di crimini di guerra
A guardare l’intero scacchiere regionale, Israele resta coinvolto su più fronti, sette per l’esattezza: Gaza, Libano, Cisgiordania, Yemen, Siria, Iraq e Iran. È attesa una presa di contatto tra l’amministrazione israeliana — rappresentata dall’inviato Dermer — e il ministro degli Esteri siriano per discutere le mappe di un possibile accordo sul confine meridionale della Siria. Le bozze di una soluzione restano incerte, mentre Human Rights Watch ha accusato l’Idf di deportazioni forzate e demolizioni di case nel sud siriano, parlando apertamente di crimini di guerra. L’esercito israeliano difende le proprie azioni come «necessità operative».
Un mosaico di crisi
La giornata restituisce un’immagine cruda: una città sotto assedio che si svuota a passo forzato, convogli di sfollati diretti verso un angolo di Striscia sempre più affollato, e una politica che tenta di contenere pressioni esterne e fratture interne. Il conflitto si conferma un mosaico in cui ogni frammento — militare, umano, diplomatico — può detonare con conseguenze difficili da circoscrivere.