
Piombo e fanatismo
“Carlo”, l’arma del terrore a basso costo: una mitraglietta fai-da-te per compiere una strage tra le strade di Gerusalemme
Uno strumento a basso casto per una guerra sporca: così il terrorismo islamico uccide con i ferri vecchi della Storia e diffonde la propaganda fondamentalista
Era lì, sull’asfalto, abbandonata accanto al marciapiede intriso di sangue. La mitraglietta “Carlo”, la stessa che ieri ha ucciso sei israeliani nel quartiere Ramot di Gerusalemme, non è un’arma sofisticata. È piuttosto un agglomerato di ferraglia, un manufatto rudimentale partorito in qualche cantina della Cisgiordania. Ma è proprio questa rozza semplicità a renderla micidiale.
La mitraglietta “Carlo” pronta per la strage
Dietro quel nome apparentemente innocuo si cela una delle armi più letali del terrorismo urbano contemporaneo. La sua origine risale alla Carl Gustav m/45 svedese, nata alla fine della Seconda guerra mondiale e poi esportata, copiata, adattata, reinventata. In Egitto ne hanno prodotto una versione ancora più spartana, la Port Said, poi replicata artigianalmente nei territori palestinesi. Il risultato? Una mitraglietta grezza, priva di estetica e di precisione, ma efficace quanto basta per sparare nel mucchio e fare una strage.
Arma da officina, arma da guerra
Non serve una fabbrica. Bastano alcuni tubi di scarto, componenti rubati, pezzi di armi dismesse o di pistole da softair. Perfino una vecchia lavatrice può fornire il metallo adatto. Il prodotto finito può apparire instabile, ma se il meccanismo tiene per quei trenta secondi maledetti, compie il suo dovere: una raffica a corto raggio, una pioggia di piombo su civili inermi, pendolari o turisti che scendono da un autobus, passanti raccolti a un incrocio.
“Carlo” è la mitraglietta della miseria e del fanatismo. Non ha un raggio utile superiore ai cento metri. Non brilla per affidabilità. Si inceppa spesso, come accadde nel 2016 durante l’attacco al mercato Sarona di Tel Aviv, quando due attentatori svuotarono i caricatori puntando sulla folla. Ma prima di incepparsi, aveva già ucciso quattro persone.
Economica, trasportabile, invisibile
Il prezzo varia da 800 a 4.000 dollari. Il costo dipende dalla raffinatezza del pezzo, dalla presenza o meno del calcio pieghevole, dalla qualità dei materiali impiegati. Le più comuni, come quella impiegata lunedì a Gerusalemme, sono sprovviste di impugnatura posteriore: si nascondono meglio. Entrano in una borsa, si infilano sotto un giubbotto. Nessun metal detector in grado di individuarle preventivamente, nessun numero di serie per rintracciarle a posteriori.
Per questo “Carlo” è diventata lo strumento di morte prediletto non solo dei terroristi palestinesi, ma anche delle bande criminali arabo-israeliane. È un’arma da combattimento urbano, nata per colpire da vicino, all’improvviso, senza lasciare traccia se non quella dei cadaveri. Lo Shin Bet ha individuato numerose officine clandestine nella West Bank: a Jenin, a Hebron, a Nablus, come ricostruisce Fausto Biloslavo sul Giornale.Nel 2014, un’operazione dei commandos Yahalom — “diamante” in ebraico — portò al sequestro di un intero arsenale nella città poco sotto il confine con il Libano.
Strumento del martirio low cost
Per i miliziani di Hamas e della Jihad Islamica, “Carlo” è molto di più di quanto si pensi. È un mezzo per fare propaganda. Viene brandita nelle immagini di addestramento delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, compare nei video di rivendicazione, è stata usata durante sparatorie sul Monte del Tempio, nel cuore simbolico di Gerusalemme. Le vittime non sono solo numeri. Nel 2017, tre poliziotti drusi caddero sotto i colpi di una “Carlo”. Nel 2000, a cadere fu un poliziotto israeliano ucciso da criminali comuni arabi.
La diffusione dell’arma è capillare, ma è la sua invisibilità a renderla intoccabile. Non è registrata. Non ha una fabbrica alle spalle. Nessuno la esporta, perché nessuno la produce ufficialmente. Eppure è ovunque. E spara.
La morte a buon mercato
Rappresenta una delle contraddizioni più feroci del nostro tempo. È l’arma del povero, certo. Ma anche del fanatico. È l’incarnazione di una guerra a bassa intensità che scorre sotto la superficie, come un veleno lento e persistente.
Non serve tecnologia avanzata. Basta un caricatore da 36 colpi, qualche munizione calibro 9×19, e un uomo disposto a morire — o a brandirla — per una causa ideologica che trasforma le cantine in poligoni d’addestramento e le città in bersagli.