
Parma
Bambino nato senza gambe la notte di Natale: sentenza durissima contro un ginecologo. Risarcimento di 350mila euro
Nella notte di Natale del 2015, all’ospedale Maggiore di Parma, Bryan nasceva senza gambe dal ginocchio in giù, nonostante le continue rassicurazioni date dal ginecologo durante la gravidanza. Oggi, a distanza di dieci anni, quella vicenda si conclude con una sentenza che condanna il medico a risarcire la famiglia con circa 350mila euro tra danni, spese legali e interessi; una decisione che invita a riflettere sulla responsabilità professionale dei ginecologi nel caso di bambini nati con una malformazione non diagnosticata.
La sentenza del Tribunale di Parma: errore diagnostico accertato
La giudice Cristina Ferrari del Tribunale civile di Parma ha accolto integralmente le tesi dei legali della famiglia, gli avvocati Silvia Gamberoni e Alessandro Falzoni. Nell’ordinanza si legge: “È altrettanto pacifico e documentato che nessuno dei medici coinvolti nella vicenda avesse rilevato prima della nascita del bambino l’esistenza della malformazione, nonostante durante la gravidanza la donna si fosse sottoposta a plurimi esami”. Il tribunale ha distinto tra la pluralità degli operatori che hanno effettuato controlli e la responsabilità professionale che spetta a chi aveva il compito esplicito e continuativo di interpretare i dati clinici e indirizzare la paziente.
L’ordinanza ha stabilito che “praticamente tutte le ecografie sono state interpretate male” dal professionista, che avrebbe dovuto accorgersi di una malformazione “macroscopica e grave”.
La responsabilità è stata attribuita esclusivamente al ginecologo privato T.B. che aveva seguito la donna durante la gestazione, mentre l’azienda sanitaria pubblica locale è state completamente prosciolta.
Il diritto negato alla scelta consapevole
Il provvedimento del Tribunale di Parma tocca uno dei nodi più delicati del dibattito bioetico contemporaneo: il diritto della donna a decidere consapevolmente del proseguimento della gravidanza. Nel testo si legge che la madre di Bryan “è stata privata del suo diritto di decidere se abortire o meno”.
Elemento determinante per il risarcimento è stata la dichiarazione della donna stessa, che, continua il provvedimento, “con elevata probabilità avrebbe abortito se avesse avuto tempestiva notizia della malformazione del feto”.
L’impatto psicologico: quando il sogno si frantuma
La giudice ha descritto con parole precise il trauma subito dalla famiglia: “La mancata diagnosi della malformazione del feto durante la gravidanza e la sua scoperta al momento della nascita del bimbo ha drammaticamente fatto andare in pezzi l’immagine che la donna sia era creata e sognata nei nove mesi precedenti”.
I 350.000 euro copriranno anche il danno morale subito dai “per lo choc al momento del parto e per non esseri potuti preparare emotivamente e psicologicamente a un evento del genere”. Una condizione aggravata dalla presenza in famiglia di un’altra figlia di sei anni, che all’epoca dei fatti “necessitava di costante attenzione, supporto e cura dei genitori”.
Il precedente della piccola Elena
Il caso di Bryan non rappresenta un episodio isolato nella carriera professionale del ginecologo T. B. Nel 2003, sempre all’ospedale Maggiore di Parma, era nata Elena, seguita durante la gravidanza dallo stesso medico. La bambina venne al mondo “con un grave problema psicofisico” e morì all’età di quattro anni, dopo diverse terapie.
Anche per Elena la diagnosi prenatale era mancata completamente. Il Tribunale civile di Parma, nella sentenza del 23 ottobre 2013 firmata dal giudice Renato Mari, condannò il ginecologo a risarcire circa mezzo milione di euro “avendo omesso, per colpa, di accertare le gravi malformazioni da cui poteva essere affetto il feto e conseguentemente del grave handicap della nascitura, inibendo così alla madre la possibilità di abortire”.
La perizia medica aveva concluso che T. B. aveva agito con “imprudenza e imperizia” nel “non diagnosticando l’infezione” che aveva causato i gravi problemi della bambina. La madre di Elena, Sara, operaia, fu costretta ad abbandonare il lavoro per assistere la figlia durante i suoi quattro anni di vita.
Il precedente legale del ginecologo riuscì a far ricadere integralmente la sua responsabilità sotto la copertura della compagnia di assicurazione. Il 2016, quando è venuto alla luce il caso del piccolo Bryan, la madre di Elena ha ricordato pubblicamente che si trattava del suo stesso ginecologo.
La diagnostica prenatale: responsabilità e limiti
Le malformazioni congenite consistono in un’anomalia nella forma o nella struttura di un organo che si determina prima della nascita. Queste patologie riguardano circa il 5-6% dei nuovi nati, per un totale di circa 8 milioni di bambini nel mondo ogni anno (oltre 20-25.000 in Italia). Di questi, una percentuale significativa potrebbe essere diagnosticata durante la gravidanza attraverso screening appropriati. In molti Paesi, soprattutto in quelli più sviluppati, le malformazioni congenite rappresentano una delle prime cause di morte al di sotto dei cinque anni di vita.
Le ecografie morfologiche, generalmente eseguite tra la 18ª e la 22ª settimana di gestazione, permettono di individuare circa l’80% delle malformazioni strutturali maggiori. Nel caso dell’agenesia degli arti inferiori, la diagnosi prenatale è tecnicamente possibile già dal secondo trimestre di gestazione.
Le implicazioni per il sistema sanitario
L’ordinanza di Parma si inserisce in un panorama giuridico in evoluzione. La Cassazione ha chiarito negli anni che il medico ha il dovere di informare correttamente la paziente sui risultati degli esami, permettendole di prendere decisioni consapevoli.
L’omessa o errata diagnosi prenatale configura una violazione di questo obbligo, con conseguente responsabilità risarcitoria.
L’Ausl di Parma ha tenuto a precisare che “la responsabilità è stata accertata esclusivamente a carico di un ginecologo privato non dipendente delle due azienda sanitarie”, sottolineando come “i professionisti afferenti a servizi delle Aziende Sanitarie di Parma” siano risultati “estranei” alla vicenda.
Il caso di Bryan dimostra come in caso di malformazioni o patologie del feto non diagnosticate, il danno (e quindi la responsabilità) esiste anche al di là della possibilità di rimediare o meno a quella condizione. Il fatto stesso di mancare una diagnosi non particolarmente complessa e di non mettere la donna nelle condizioni di scegliere consapevolmente se portare avanti la gravidanza è un illecito.