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Consigli per la visione: tre miniserie e un film che vale la pena guardare in queste pigre notti d’estate
L'esilarante rivisitazione di un fatto realmente accaduto, la spy story ispirata a un romanzo di Le Carré, la serie che pure Pier Silvio (probabilmente) è stato costretto a vedere e un action movie che pensa americano e ha anima italiana: ce n'è per tutti i gusti. O per un gusto che li ricomprende tutti
Estate, tempo di letture sotto l’ombrellone, certo. Ma per chi resta in città deserte, spesso più libero da incombenze e impegni sociali, anche – perché no? – di maratone tv. E, allora, ecco tre miniserie e un film da guardare per distrarsi senza troppi pensieri. Ma in stile Secolo.
“Whiskey on the Rocks”: l’esilarante miniserie sulla guerra nucleare sfiorata nel 1981
Per esempio, lo sapevate che in piena Guerra Fredda abbiamo rischiato lo scoppio della guerra nucleare in Europa? Non mentite, abbiamo fatto un sondaggio interno e non lo sapeva praticamente nessuno. Però, tutti sapevamo della crisi dei missili a Cuba del 1962. Ecco, una cosa in qualche modo simile è successa nel 1981 nel mar Baltico, quando un sottomarino nucleare russo, classe Whiskey U-137, si è incagliato sulle coste dell’arcipelago svedese di Karlskrona. Gli svedesi ci hanno prodotto sopra l’esilarante miniserie Whiskey on the Rocks, rilasciata quest’anno su Disney+.
Ci sono russi ubriaconi, svedesi storditi, americani spacconi e i ritratti più irriverenti che si possano immaginare dei presidenti di allora di Usa e Urss, Ronald Reagan e Leonid Brežnev. Intorno c’è un’umanità varia per cultura e attitudine che riesce miracolosamente a evitare il collasso del mondo. Menzione particolare meritano le due interpreti che fanno da tramite tra Regan e Brežnev, cancellando nella traduzione le intemperanze verbali e caratteriali dell’uno e dell’altro. Quando la serie è stata girata non c’erano ancora stati i – per fortuna superati – fatti incresciosi dello Studio Ovale tra Trump e Zelensky: non siamo al livello delle profezie dei Simpson, ma la strada è buona. La serie è composta da sei episodi di circa mezz’ora l’uno. Ed è imperdibile.
“The Night Manager”: la spy story di qualità cinematografica che fa a pezzi l’MI6
Rimaniamo nel terreno delle crisi e di quello che si muove dietro, ma cambiamo decisamente registro. Facendo anche un balzo indietro di una decina d’anni: The Night Manager è una serie pluripremiata del 2016, che si trova su Prime. È l’adattamento di un romanzo del 1993 di John Le Carrè, che, per inciso, fu agente al servizio di Sua Maestà finché non ne venne bruciata la copertura. Nella versione televisiva i fatti si svolgono a partire dal 2011, prendendo le mosse dalle rivolte al Cairo nel contesto della cosiddetta Primavera araba.
Jonathan Pine è un ex soldato britannico che fa il portiere di notte in un albergo extra lusso. Per una serie di circostanze diventa un operativo di una intelligence minore e, nello specifico, di una cellula composta da una ostinata agente molto incinta e dal suo vice nerd. Sembrano una massaia e un ricercatore fuori sede, ma si mettono in rotta con un MI6 corrotto fino al midollo. Il loro scopo è quello di incastrare il ricchissimo e molto potente trafficante di armi Mr. Roper, che agli occhi del mondo è un rispettabile imprenditore globale, impegnato – che colpo basso per i miliardari filantropi! – in progetti umanitari sotto l’egida dell’Onu. Per riuscire a fermarlo, un Pine compito come un maggiordomo reale diventerà il “secondo uomo peggiore del mondo”, ma solo perché il primo posto è già occupato da Roper.
Sono sei puntante da circa un’ora ciascuna, con qualità cinematografica e un cast che non può lasciare insensibili gli appassionati di cinema, tv e streaming: Pine è Tom Hiddleston, il Loki degli Avangers; Mr Roper è Huge Laurie, dr House; l’agente incinta è Olivia Coleman, la regina Elisabetta matura di The Crown; la fidanzata di Roper è Elizabeth Debicki, Lady Diana ancora in The Crown. Gli appassionati di manovre dietro le quinte si potranno compiacere, invece, del ragionamento di un funzionario leale alla sua Nazione sul fatto che non è detto che fermare il traffico d’armi sia l’opzione migliore, perché talvolta può essere più utile indirizzarlo verso le fazioni amiche.
Va segnalato che la serie non è doppiata, ma fa fare nottata anche così. E, anzi, questo potrebbe rappresentare un bonus per chi vuole unire utile e dilettevole: sia Hiddleston che Laurie sono ex allievi dell’esclusivo Eton College, scuola di reali, ricchi e futuri premier. Parlano un inglese suadente come solo la più british delle declinazioni di inglese sa essere. Altri protagonisti, per la verità, sono incomprensibili per un livello medio, ma ci sono i sottotitoli che si possono mettere anche in formato grande e grandissimo.
“Lettere dal passato”: chi siamo noi per contraddire la mamma di Pier Silvio?
Per chi invece è stanco di geopolitica e vuole riflettere su temi leggeri come il valore delle radici, il senso della maternità, l’effimera, traditrice promessa giovanile del futuro su Netflix c’è la serie turca Lettere dal passato. Una ragazza scopre, mentre la madre ex insegnante malata di Alzheimer sta morendo, che la sua madre biologica non è lei, ma un’alunna che l’aveva abbandonata. Un tema non propriamente estivo, diciamo. Ma l’argomento è trattato con la freschezza dello sguardo della protagonista ventenne.
E, comunque, il punto non è questo: di Lettere dal passato, otto episodi da circa mezz’ora, forse si potrebbe anche fare a meno, ma non si può fare a meno di una concessione alle serie turche che, con quelle coreane, sono il vero fenomeno di costume degli ultimi anni. Nelle serie turche non ci sono scene esplicite di sesso, non ci sono parolacce, non c’è indulgenza per la droga, non ci sono dubbi sul genere di appartenenza, non c’è nessuna di quelle “quote” che di qua dal Bosforo sembrano imprescindibili per il successo di pubblico. Eppure vanno alla grande.
Vanno viste, capite, soppesate. Come del resto si era ampiamente intuito da quell’intervista in cui Pier Silvio Berlusconi rivelò che, quando la andava a trovare, sua madre (come molte altre madri, ndr) stava sempre davanti a una qualche serie turca e gli diceva: «Ciao Pier Silvio, ora o ti siedi con me e la vediamo insieme oppure torna un’altra volta». E, insomma, chi siamo noi per contraddire la mamma di Pier Silvio?
“La città proibita”: sono mica gli americani, ma gli action movie li possiamo fare anche noi
Infine, non è una miniserie, ok, ma è stato rilasciato da poco su Netflix e merita assolutamente una menzione: La Città Proibita di Gabriele Mainetti. Ambientato in una piazza Vittorio sempre più preda della mafia cinese e meno degli estorsori italiani, il film racconta questo “scontro di civiltà” con un’onestà priva di compiacimenti. Ma, soprattutto, ribadisce un concetto che Mainetti aveva già espresso chiaramente con Lo chiamavano Jeeg Robot: non siamo mica gli americani, ma proprio per questo i film d’azione, con tanto di eroi potenziati, li possiamo fare anche noi.
La Città Proibita è un action movie che “Hollywood scansate”, ma ha un’anima e uno stile profondamente italiani. Anche grazie a un cast che “Eton scansate pure te”: Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Luca Zingaretti, Enrico Borrello e l’italo-cinese Elisa Wong, che interpreta una protagonista resa quasi muta dall’ostacolo linguistico, ma che mena il kung fu di santa ragione.
Tutti bravi, bravissimi, ma l’interpretazione di Giallini del nostalgico boss di quartiere, che lucra sul racket delle elemosine dei migranti e carica la sua ridotta criminale di significati sentimentali e da guerra identitaria, è veramente qualcosa. «Te volevamo bene pure con tutte le schifezze che fai», gli urla il personaggio giovane e genuino di Marco Borrello in una scena che coglie l’essenza del cuore dei romani di strada e restituisce un atto di schiettezza verso la natura umana, in cui le zone grigie sono assai più estese di quelle bianche o nere.