
Società in mutamento
Addio al mito di Hollywood: le nuove generazioni consumano coreano. È la fine dell’egemonia americana
Dal Nobel, alla musica, passando per il cinema: Seul non è più solo un paese lontano, ma una presenza fissa nella nostra quotidianità culturale. E noi nemmeno ce ne siamo accorti
Un tempo il mondo intero parlava americano. Dal cinema alle canzoni, dai romanzi ai simboli di massa, la cultura statunitense era l’impero invisibile che dominava desideri e immaginari. Quel tempo sembra tramontato. Oggi, le nuove generazioni guardano serie coreane, leggono romanzi coreani, cantano sulle note del K-pop, il genere musicale nato a Seul che unisce pop, hip hop ed elettronica in un’industria globale. Persino il Nobel per la Letteratura parla coreano: Han Kang, cinquantatré anni, diciottesima donna a ricevere l’ambito riconoscimento, premiata per la sua “prosa poetica intensa, capace di esplorare traumi storici e svelare la vulnerabilità dell’esistenza umana”.
La nuova egemonia coreana
Quando un Paese conquista il cuore degli spettatori con Squid Game, ottiene l’Oscar con Parasite e riempie gli stadi d’Occidente con le sue star, non si tratta più di costume ma di egemonia culturale. Perfino Giorgia Meloni, con la figlia Ginevra, è stata sorpresa tra il pubblico delle Blackpink: un’istantanea che rivela meglio di mille analisi la forza di attrazione della Korean wave, un’ondata vera e propria.
Dietro questa patina pop c’è però una storia feroce che pochi conoscono. La Corea del Sud non è soltanto luci al neon e canzoni da classifica. È un Paese che in settant’anni ha vissuto ciò che altrove richiede secoli: dittature militari, repressioni sanguinose, un protettorato di fatto americano, la conquista tardiva della democrazia e infine la costruzione di un’identità nuova, non più solo etnica ma civica, capace di proiettarsi sul piano globale.
Dalla guerra dimenticata alla democrazia
Lo ricorda Ramon Pacheco Pardo, professore al King’s College di Londra, nel volume Da gambero a balena. Corea del Sud, dalla guerra dimenticata al K-pop. La sua ricostruzione è nitida: dal trauma della colonizzazione giapponese al dramma della guerra di Corea (1951-1953), la penisola si è spezzata in due mondi inconciliabili. Al Nord, la dinastia dei Kim e la dittatura comunista. Al Sud, una sequenza di generali e poliziotti che governano col pugno di ferro.
In quelle ferite nasce il minjok, il mito dell’unicità etnica, che per decenni ha alimentato l’idea di un popolo distinto e irripetibile. Ma l’avvento della democrazia, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, rovescia lo scenario: un “nazionalismo civico”, come lo definisce Pardo, prende forma, sostituendo l’identità di sangue con un’identità politica e culturale. È la svolta che consente alla Corea del Sud di presentarsi al mondo non più come provincia ferita, ma come nazione moderna, creativa, proiettata verso l’esterno.
Una rivincita
Ciò che oggi arriva sui nostri schermi, tra i set di Seul e le note delle girlband, non è soltanto intrattenimento. È la rivincita di una storia di sofferenze trasformata in energia creativa. Se il secolo scorso era dominato dall’egemonia americana, il presente sembra destinato a parlare coreano. E noi, spettatori europei, consumiamo con entusiasmo questi nuovi miti, spesso senza conoscere il loro retroterra tragico.