
Il “Washington Post” (di Bezos) fiuta la vittoria di Trump e scarica Kamala. I Dem gridano al tradimento
In un’epoca dove il silenzio può parlare più forte delle parole, il Washington Post ha preso una decisione radicale: «Non faremo nessun endorsement per un candidato presidenziale in questa elezione. Né in nessuna futura elezione. Stiamo tornando alle nostre radici», dichiara l’editore William Lewis, evocando l’era in cui Nixon sfidava Kennedy. La decisione, senza precedenti da decenni, ha infiammato il dibattito e aperto uno squarcio nelle redazioni americane. Tra chi grida al tradimento e chi applaude la ritirata strategica, l’opinione prevalente è che si tratti di una scelta di comodo: un modo per evitare lo scontro con una presidenza Trump sempre più vicina, voluto da Jeff Bezos per proteggere i suoi interessi e scongiurare nuove tensioni con il Tycoon.
Un passo indietro o un salto nel buio?
Questa scelta, che arriva sulla scia del caso del Los Angeles Times, ha generato il caos nei corridoi interni del Post. Secondo diverse indiscrezioni, infatti, l’avallo per Kamala Harris era già pronto, ma Bezos, attuale proprietario del giornale, avrebbe deciso di bloccarlo, spingendo alcuni giornalisti a pensare che il magnate della tecnologia stia proteggendo i suoi interessi esterni. A detta della critica, la nota testata sembra «chinare la testa» o addirittura «inginocchiarsi» davanti al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Jennifer Rubin, editorialista di punta e notoriamente critica verso The Donald, potrebbe ora lasciare il Washington Post come segno di dissenso, una sorta di «Giovanna d’Arco del Potomac», come l’ha definita lo Spectator. Dunque, se il giornale, simbolo di resistenza anti-Trump, ora opta per il silenzio, la domanda è se questo silenzio rappresenti davvero un atto di indipendenza, o un segnale di resa. Come notano alcuni osservatori, «questo non è il National Review, che nel 2016 pubblicò ‘Against Trump‘ per poi sostenerlo mesi dopo». Questa volta, la posta in gioco è l’autonomia stessa della testata, in un’America in cui l’opinione pubblica appare più divisa che mai.
Se l’endorsement ai Dem crolla, quello per Trump decolla
Mentre il Washington Post sprofonda in un silenzio strategico, Tucker Carlson, ex star di punta di Fox News, si muove in tutt’altra direzione. Dal suo nuovo studio rustico nel Maine, Carlson continua a incitare le folle con un tono ben lontano dalla neutralità. Durante un evento a Duluth, in Georgia, ha infiammato il pubblico con dichiarazioni come «Papà sta tornando a casa ed è furioso», riferendosi all’ex presidente. Carlson non ha risparmiato critiche verso la Harris, definendola una «figurante in cartone…scelta perché aveva il colore giusto» e dichiarando, tra le risate del pubblico, «sei stata una bambina cattiva, e adesso riceverai una vigorosa sculacciata». Ora libero dalle restrizioni di Fox News, Carlson si alza i toni, con un pubblico di milioni di spettatori online che lo seguono fedelmente sulla sua piattaforma Tucker Carlson Network.
L’ex presentatore, che un tempo si era tenuto distante dagli eccessi del movimento MAGA, è oggi uno dei portavoce più affermati di quella corrente. L’endorsement di Carlson per Trump va oltre la politica tradizionale; il suo discorso, fatto di satira e di provocazioni, parla a un’America disillusa e arrabbiata, e ormai pronta a votare. In uno degli interventi più discussi, ha attaccato il Partito Democratico definendolo «il partito degli uomini deboli e delle donne infelici, l’uno porta all’altro», facendo riecheggiare risate e applausi tra i suoi fans.
Silenzio stampa o voce senza filtri: i due volti dell’America
Il contrasto tra il Washington Post e Tucker Carlson ci regala una fotografia della profonda spaccatura che attraversa oggi l’informazione americana. Da un lato, un giornale storico si zittisce per evitare perdite potenziali; dall’altro, Carlson sicuro del risultato si spinge oltre, abbracciando senza riserve il trumpismo e sfidando il politicamente corretto. La lotta per la White House si gioca tra questi due estremi, in un confronto che potrebbe riscrivere non solo il panorama politico, ma anche le priorità del giornalismo targato Usa… o forse l’ha già fatto.