L’arte sempre più seppellita sotto il peso del nichilismo, ma c’è ancora spazio per una sua rivincita

22 Set 2024 8:00 - di Alberto Samonà

Arte e bellezza hanno ormai definitivamente divorziato o c’è ancora spazio per recuperare un rapporto che dovrebbe, al contrario, essere simbiotico? Stando alle tendenze in voga da tempo sembrerebbe che il solco sia divenuto una voragine di proporzioni sempre più ampie. Non soltanto, perché tanto più brutta è un’opera quanto più frequentemente questa viene esaltata dalla critica e dai media, ma anche per il fatto che tale bruttezza è spesso insita nel codice genetico, se così può dirsi, di molte produzioni artistiche, che hanno la pretesa, non di evocare emozioni nel profondo, ma piuttosto, di assecondare i nuovi dogmi del pensiero globalista. Avviene così che parole d’ordine e slogan figli del buonismo imperante e del “politically correct” vengano ripetuti come mantra, allo scopo di farli imprimere a fuoco nelle coscienze di tutti, trasformandoli, in tal modo, in nuovi valori, neanche a dirlo, indiscutibili.

Il dato grave è che tale modello viene spacciato come l’unico possibile, mentre tutte le altre visioni puzzerebbero di vecchiume o di immonde cadute nella conservazione reazionaria di un mondo oramai ammuffito, da cancellare e destrutturare dalle fondamenta ad opera dei nuovi liberatori del pianeta: dagli Usa all’Europa il diktat è sempre lo stesso, con l’aggravante che tale impostazione/imposizione la si trova, oramai, anche in molte tendenze che iniziano a fare capolino pure in Oriente, sotto la spinta di influenze artistiche contemporanee alla moda e della loro pretesa sempre più egemonica.

La vocazione al nulla: il concettualismo

La vocazione al nulla che ne viene fuori è testimoniata da una serie di tendenze, dominate tutte dal crescente individualismo, esaltato dai tessitori del pensiero unico come emancipazione liberale e libertaria e perciò, quale conquista da portare ulteriormente avanti. Pulsioni individuali che sono la base di un concettualismo diffuso, permeato e iniettato da ideologie post-umane che ne modellano ulteriormente la sostanza. Tale meccanismo si avvale anche di una serie di armi ben note, fra le quali vi è quella – scontata – della finta trasgressione, che in realtà è il volto disonesto e ipocrita del conformismo, mascherato da spinta rivoluzionaria e controcorrente. Nelle opere di molti artisti contemporanei (fra cui noti esponenti della street art) questa tendenza appare sempre più marcata, ma nella realtà, ciò che sembra anticonformista altro non è che lo specchietto per le allodole per l’affermazione della solita visione, figlia di quell’omogeneizzato culturale su scala planetaria che viene spacciato come progresso: ciò che è importante è il messaggio da divulgare, che deve essere in grado di creare pensiero condiviso, che tradotto vuol dire influenzare le scelte delle masse e diventare modello (unico) a cui aderire. L’omologazione è servita!

La visione nullitaria è servita

È evidente che una simile visione “nullitaria” (perdonate la licenza linguistica) non prevede alcunché in grado di dar spazio all’immaginifico e niente di duraturo, ma sia perfettamente rappresentata dal concetto stesso di installazione, che nasce per non durare, affermando l’incertezza e la caducità quale forma espressiva finale e sostituendo il contingente e il divenire alla permanenza e all’essere. I luoghi prediletti per questo impoverimento non sono le gallerie d’arte, bensì le strade e le piazze, poiché bisogna distruggere l’essenza stessa del genius loci e sostituirla con un nuovo demone ingordo e in movimento, che tutto divora nell’attualismo della propria missione livellatrice. Per millenni le opere d’arte venivano posizionate sulle strade o sulle piazze per contrassegnarle e per esserne parte integrante, per interpretarne, appunto, il genio del luogo o per diventarlo simbolicamente esse stesse. La funzione educativa dell’opera si fondeva con i luoghi per i quali era pensata e la creatività umana incontrava, così, l’energia dello spazio a cui era rivolta. Il rapporto simbiotico veniva in ciò mantenuto, come figlio di leggi universali e non scritte, di geometrie invisibili, immutabili ed eterne. Le statue, ma anche gli edifici che sorgevano in tali contesti, apparivano spesso quali ierofanie, manifestazioni del Sacro che si esprimevano mediante la mano umana, il gesto artistico. L’arte diventava l’essenza stessa dell’incontro fra le energie, le influenze dall’Alto, e il genio creativo dell’uomo. Il “messaggio” non era concettuale, ideologico o politico, ma impersonale, poiché impresso da questo incontro sottile, in grado di generare una nuova corrente di energia che si manifestava artisticamente, imprimendosi nella materia. Nelle piazze odierne, anche virtuali, invece, si celebra il trionfo del nulla, la morte dell’opera d’arte, sostituita dalla disgregazione nichilistica, che assurge a fine ultimo del relativismo culturale a cui appartiene: se tutto è arte, niente è arte e perciò, ogni cosa può essere messa in discussione.

Sparizione dell’arte e transumanesimo

Fra l’altro, questo non è certo un processo degli ultimi tempi, ma è l’evoluzione ultima di una tendenza che si consuma oramai da molti decenni: a fine anni ottanta il filosofo Jean Baudrillard parlava già di “sparizione dell’arte”; la sua scomparsa sarebbe avvenuta – scriveva – per far posto alla merce, estranea dall’evocazione del sublime e del bello. Ma se nella seconda metà degli anni Ottanta si parlava di consumismo che aveva sostituito l’arte, adesso il “consumatore” e il “consumato” coincidono, poiché a scomparire è, in definitiva, l’uomo, seppellito dalle nuove ideologie del transumanesimo e del post-umanesimo, il cui scopo finale è la disgregazione dell’essere, per lo meno nella sua dimensione ontologica, per far spazio a un “nuovo umano”, che divora tutto nell’affermazione di un ego individualistico, distaccato e slegato da ogni appartenenza, da ogni essenza, interiore ed esteriore, avente quale unico scopo il soddisfacimento dei propri desiderata, dei propri capricciosi piaceri (materiali, ma anche intellettuali) e la pretesa che siano da tutti condivisi.

Non tutto (il bello) è perduto

Nonostante il grado di avanzamento di questo processo distruttivo, tuttavia, è ancora possibile un’inversione di tendenza, guardando alla verticalità, all’interazione fra il nostro piano orizzontale e una dimensione assoluta, universale: in fin dei conti, la possibilità di una rinascita artistica e culturale esprime innanzitutto la speranza di una rinascita dell’uomo, non più accecato dall’affermazione individualistica del proprio doppio meccanico; non più fluido ed evanescente da far sciogliere nel nulla del proprio apparente godimento momentaneo, ma consapevole di sé, riconnesso al Tutto e dunque, in relazione con lo spazio e con il tempo, ma anche con ciò che li trascende. La morte dell’arte non è stata ancora decretata perché, se è vero che ogni epoca storica ha la propria arte che riflette ogni società, è altrettanto vero che il genio dell’uomo può recuperare energia e riaffermarsi nel solco della storia. In definitiva, c’è ancora spazio per una dimensione artistica, perché c’è ancora spazio per la vita e per l’edificazione di un mondo che non sia inevitabilmente destinato alla sua implosione.

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