Se l’attivismo politico-referendario della Cgil spacca la “triplice” e si fa gioco dei lavoratori
Sarà ricordata come la calda estate che ha visto lo storico fronte sindacale (la cosiddetta Triplice) divaricarsi in una modalità che sarà difficile da ricomporre nel breve periodo. Stando alle iniziative messe in campo di recente dalla Cgil, sì. Una presa di distanza che passa e si allunga ogni qualvolta si pronuncia la parola referendum.
E infatti, in zona Cisl, si fa sempre più fatica a stare al passo di una Cgil che ha come agenda esclusiva la volontà di fare pesare la propria capacità di mobilitazione nel campo di un centrosinistra che non trova altra rotta se non nelle mappe dei diritti arcobaleno.
Un vuoto politico che Maurizio Landini e compagni hanno deciso di riempire, strattonando la segretaria Elly Schlein, che sui temi del lavoro e dello sviluppo rischia di perdere per strada quei riformisti che un tempo stavano di casa nel Pd. La Cgil, insomma, rivendica una centralità politica nel campo progressista che, sia nella teoria che nella passi, supera e allo stesso tempo mortifica la mission sindacale.
Sono i quattro quesiti referendari già depositati in Cassazione – quelli che dovrebbero cancellare quello stesso Jobs Act che il Partito democratico, ormai dieci anni fa, sostenne a tamburo battente – a seminare il panico.
Luigi Sbarra, segretario Cisl, è infatti intervenuto liquidando come anacronistica ogni iniziativa che intende riportare indietro le lancette della dialettica tra imprese e lavoratori. Problema non da poco, perché dietro la disputa apparentemente tattica imposta da Landini, si gioca una ben più scivolosa partita sull’eredità ideologica del Novecento e i suoi dolorosi conflitti sociali.
Anche da sinistra c’è chi storce il naso. Marco Rizzo, da posizioni evidentemente più ‘ortodosse’, ci ha tenuto a ricordare il cortocircuito storico che, ancora oggi, pesa nella coscienza della sinistra sindacale: «Landini e Cgil – ha commentato sul X il leader di Dsp – ipocriti. Oggi vogliono un referendum per ripristinare l’art. 18; ieri, quando fu abrogato (29 agosto 2014 da Renzi e PD) e con esso smantellato l’intero impianto dei diritti della classe lavoratrice, la CGIL si guardò bene dal fare anche solo “4 ore” di scioperi».
A riprova dello schema politico messo in campo dalla Cgil, arriva la raccolta firme per il referendum abrogativo del disegno Calderoli sull’Autonomia differenziata. Un tema che, a tutta prima, stenta a farsi riconoscere come pertinente all’attività sindacale o al mondo del lavoro. Non lo è, infatti. Altrettanto difficile è non riconoscere il tentativo tutto politico di mettersi alla testa di quell’area progressista che sul tema del regionalismo non la racconta giusta. Fino a prova contraria, sia l’avvio delle Regioni (avvenuto negli anni Settanta), che la riforma del Titolo V in senso para-federale del 2001, hanno avuto i promotori in via delle Botteghe Oscure.
E intanto la Cisl preferisce andare da tutt’altra parte, puntando al dialogo con le forze governative in vista di quei correttivi che possano blindare la solidarietà tra territori e la coesione. Postura totalmente differente rispetto al sindacato di Landini, insomma. E che, a conti fatti, potrebbe portare a risultati ben più concreti e utili, così come è già avvenuto sul versante della proposta sulla Partecipazione, che ha trovato in FdI una fondamentale sponda parlamentare.
Sullo sfondo resta tuttavia il tema del salario minimo, che potrebbe diventare tema di un prossimo tentativo referendario destinato a sconvolgere la configurazione dei rapporti sindacali e scardinare lo strumento della contrattazione. Un cavallo di Troia, insomma. In zona Cgil ci stanno pensando, nella consapevolezza di maneggiare un tema dal forte impatto politico che può ridisegnare i rapporti tra Pd e Cinque stelle, ma che scarsamente inciderebbe sulla vita dei lavoratori, se non in negativo. Anche qui, però, la Cisl lo ha fatto sapere preventivante: senza contrattazione collettiva nazionale non si va da nessuna parte.